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Arrestami pure, perché io non sono gratis

Con la scusa di garantire la sicurezza delle strade, la polizia pratica abusi sessuali e violenza di genere.

Quando sui social sono apparse le foto di Brett Hankinson, uno degli ufficiali che ha assassinato Breonna Taylor il 13 marzo 2020, almeno cinque donne lo hanno riconosciuto. Dissero che era lo stesso poliziotto che si era offerto di accompagnarle a casa e che poi le aveva molestate sessualmente e violentate. Margo Borders ha scritto su Facebook che Hankinson «Mi ha riportata a casa in pattuglia, si è introdotto nel mio appartamento e mi ha violentata mentre ero incosciente». Borders non ha denunciato immediatamente lo stupro perché temeva ritorsioni: «In quanto poliziotto avrebbe avuto la meglio. Chi chiami quando la persona che ti ha violentata è un membro della polizia? A chi avrebbero creduto? Non a me, ne ero certa».

La ricerca della giustizia per Breonna Taylor è stata assorbita dai movimenti nati dalla rabbia per gli omicidi degli afroamericani, il suo nome onorato tra i tanti al grido di “say their names” (dite il loro nomi). Il caso di Hankinson è emblematico nel mostrare come spesso si consideri la violenza della polizia qualcosa che accade agli uomini neri o alle persone nere; tuttavia, se ci dimentichiamo di fare una distinzione di genere tralasciamo una caratteristica fondamentale di tale violenza. Le esperienze delle donne con la polizia rivelano forme specifiche di violenza di genere spesso trascurate, ma che sono fortemente radicate nella struttura delle forze dell’ordine. É dunque necessario prenderle in considerazione nella loro specificità se si vuole smantellare il razzismo endemico all’interno della polizia.

Le molestie sessuali da parte degli ufficiali sono nascoste in bella vista, scarsamente denunciate e investigate. Le poche ricerche a riguardo rivelano che si tratta di un problema strutturale delle forze dell’ordine e che le donne di colore, cisgender e trans, sono particolarmente a rischio. Questa violenza è consentita dall’estrema disparità di potere tra le donne prese di mira e i poliziotti, che non subiscono le conseguenze delle proprie azioni. Senza contare che gli abusi sessuali in ambito investigativo sono delle pratiche di routine approvate dalla legge: i corpi delle donne, infatti, sono un terreno strategico sul quale la polizia ottiene prove, si assicura informatori e impone la propria autorità nel nome della “sicurezza pubblica” e della “sicurezza delle frontiere”.

Lo stupro viene considerato uno strumento legale e legittimo per le forze dell’ordine; per esempio, nella sorveglianza di reati minori come la prostituzione, i poliziotti in borghese usano spesso dei sotterfugi volti a coinvolgere le sospettate in atti sessuali con lo scopo di ottenere delle “prove” della loro colpevolezza. Dato che il consenso è ottenuto con l’inganno, questa pratica equivale a una violenza sessuale legalizzata. «È incredibilmente traumatico venire ingannatə a fare sesso con qualcuno che a un certo punto si ferma per metterti le manette e portati in una cella contro la tua volontà», ha affermato un’attivista. «Alcune donne mi hanno raccontato che dopo molti anni soffrono ancora di disturbo postraumatico alla vista di una macchina della polizia». L’adescamento è considerato legale in tutti i cinquanta stati se messo in atto dalla polizia per far rispettare le leggi morali; quando l’Alaska ha tentato di abolire questa pratica, il dipartimento di polizia di Anchorage ha respinto il progetto di legge.

Come siamo arrivatə al punto in cui le molestie sono considerate un vero e proprio metodo investigativo? La risposta è rintracciabile nelle origini della polizia moderna, più nello specifico, nella storia dell’applicazione discrezionale delle leggi sull’ordine pubblico. Quando ci confrontiamo con il passato, diventa chiara una contraddizione centrale nella vigilanza moderna: le stesse pratiche violente che oggi sono considerate abusi di potere e che i riformisti vogliono eliminare dai dipartimenti di polizia sono anche politiche ufficiali implementate dalla polizia urbana.

La violenza di genere da parte della polizia non è relegata a un gruppo anomalo di poliziotti, ma è piuttosto un importante fondamento del potere della polizia. Come ha affermato negli anni Settanta dalle femministe nere e anticapitaliste del Wages for Housework movement, movimento volto a garantire il salario per il lavoro domestico, il potere della polizia è costruito sui corpi delle donne. Alla marcia del 1976 organizzata a Boston da Margaret Prescod e altre sex worker, le donne dichiarano che le forze dell’ordine erano state create per «mantenere il potere degli uomini sulle donne e di conseguenza su tutto il resto». In altre parole, l’autorità discrezionale, su cui si basano sia il mantenimento dell’ordine pubblico che gli abusi sessuali, è fondamentale per il mantenimento del potere della polizia.

La maggior parte delle attività della polizia sono state storicamente descritte come controllo dell’ordine pubblico; oggi, per usare un eufemismo, si definisce lavoro di “sicurezza pubblica”. Nei primi decenni dopo il fallimento della Ricostruzione, mantenere l’ordine pubblico significava far rispettare la segregazione razziale e proteggere i capitalisti bianchi nelle città industriali in rapida crescita. La polizia mantenne l’ordine pubblico a discapito dei lavoratori con la formazione di Red Squad, unità specializzate nell’infiltrarsi agli incontri politici e sociali, e attraverso l’imposizione delle leggi Jim Crow atte a salvaguardare la segregazione razziale.

La questione dell’ordine pubblico all’inizio del ventesimo secolo non era solo a favore del suprematismo bianco e del capitalismo, era anche espressione del patriarcato. Le donne fuori dal coro erano viste come un grande pericolo per l’ordine cittadino. Avendo il ruolo di educare le generazioni successive, il comportamento presunto e le pratiche sessuali delle donne povere, bianche e nere, minacciava di creare il caos nella società; un caos che sarebbe stato causato da matrimoni misti, criminalità urbana e decadimento civile. La minaccia di queste donne ribelli doveva essere contenuta: le donne bianche povere dovevano essere domate e addomesticate; mentre le donne nere, alle quali venivano negati i privilegi di una maternità domestica, dovevano essere confinate in quartieri isolati. Di conseguenza, soprattutto negli stati dove non furono applicate le leggi Jim Crow, l’ordine pubblico veniva imposto attraverso arresti per reati minori, come disturbo della quiete pubblica, vagabondaggio e prostituzione.

I reati morali hanno conferito alla polizia una sorprendente autorità discrezionale. Gli ufficiali di polizia, più che i civili, erano i primi a sporgere denuncia per reati morali. Inoltre, un poliziotto non doveva nemmeno essere testimone di atti particolari per procedere con l’arresto per comportamenti non moralmente accettabili. Durante la deposizione alla corte, la testimonianza del poliziotto si basava sull’apprezzamento dell’aspetto della donna, la sua reputazione, il tipo di persone che frequentava e il quartiere in cui era stata arrestata. I poliziotti avevano il potere assoluto di determinare quali donne sarebbero state accusate, e le loro decisioni individuali erano strettamente legate alle logiche razziste, sessiste e classiste che caratterizzavano il loro lavoro. Questo potere unilaterale di bersagliare donne povere e marginalizzate era preconfezionato proprio per essere sfruttato dalla polizia.

Durante il Proibizionismo (1920-33), quando i dipartimenti di polizia erano strettamente legati alla politica nazionale di mantenimento dell’ordine pubblico, la classe media prese coscienza di quello che le donne povere nere e bianche sapevano già da tempo: il mantenimento della morale permetteva ai poliziotti di essere coinvolti in corruzione, ricezione di bustarelle, estorsione, abuso e violenza sessuale. Nei primi anni Trenta, le commissioni federale e statale, create per valutare lo scandaloso fallimento del Proibizionismo, emisero un’accusa formale generica nei confronti della polizia. Nel resoconto del 1931 per la commissione nazionale sull’osservazione e applicazione delle leggi (conosciuta come la Commissione Wickersham), il capo criminologo August Vollmer riassunse con toni pungenti: «Le forze dell’ordine sono una barzelletta per tutta la nazione». Lo stesso anno, Ernest Hopkins, un membro della commissione, descrisse le sue scoperte nella popolare cronaca intitolata Our Lawless Police (I nostri poliziotti fuorilegge), «In nessun periodo della nostra storia nazionale c’è stato un così forte antagonismo generale e sfiducia verso l’autorità pubblica».

Sebbene in quel periodo numerosi resoconti e articoli protestassero contro le forze dell’ordine, le donne venivano raramente menzionate come vittime della violenza della polizia. Questo, ieri come oggi, è una grande mancanza, considerato che tali episodi rivelavano tutta una serie di comportamenti attuati dagli ufficiali con la scusa del mantenimento della morale: l’induzione al reato, le montature, l’estorsione, la violenza e gli stupri. Per esempio, l’investigazione Seabury, tenutasi a New York nel 1931, ha riportato come due ufficiali sotto copertura della Buoncostume, “Lewis e McFarland” avessero incastrato “la signora Potocki”, una madre single che lavorava di notte come custode, mentre vendeva di nascosto alcol agli amici. Una notte del 1930, i due uomini sono comparsi alla sua porta chiedendo da bere e le hanno assicurato di essere “tipi a posto”. Dopo essere rimasti a bere nella sua cucina per due ore, la donna disse loro che era arrivato il momento di andare. A quel punto, «Lewis la colpì alla mandibola […] e le chiese $ 500. Poi le saltò addosso e le strappò i vestiti». Fu però interrotto da un’amica della vittima che bussava alla porta. Dopo aver aperto, McFarland colpì l’amica «con una forza tale che le fece uscire il sangue dalla bocca». Le due donne furono picchiate e poi portate alla centrale di polizia.

In seguito al Proibizionismo, molti esperti hanno rifiutato la scusa delle mele marce per spiegare la violenza di poliziotti come Lewis e McFarland: il problema non era individuale ma sistemico. Criminologi, giornalisti famosi e anche alcune autorità legislative riconobbero che il mantenimento della morale, che allora veniva chiamato contenimento del vizio, era una fonte di violenza, dunque, per sua natura, irriformabile. Secondo un ex agente del dipartimento di giustizia, che ha lavorato come investigatore per la corte di San Francisco, il potere degli ufficiali di decidere chi prendere di mira e con quali accuse, ha portato alla «Mancata applicazione delle leggi contro la prostituzione, il gioco d’azzardo e presunti crimini morali». Arresti selettivi, abusi e corruzione sono gli immancabili sottoprodotti di queste leggi. Leonard Harrison, ricercatore a capo di uno studio di Harvard del 1934 sul Dipartimento di polizia di Boston, scrisse «Il contenimento del vizio è la minaccia principale dei dipartimenti di polizia». Harrison auspicava l’eliminazione di tutte le squadre della buoncostume.

Ma nel secolo successivo, tutto quello che era stato appreso sulle forze dell’ordine nell’era post Proibizionismo fu dimenticato. I dirigenti della polizia nazionale e locale lanciarono nuove campagne propagandistiche in cui sostenevano che i poliziotti non erano criminali, ma piuttosto la migliore e unica difesa dei cittadini e delle cittadine bianchə contro i criminali. Dagli anni Trenta in poi, subendo un’accelerazione dopo la Seconda guerra mondiale, le forze dell’ordine hanno costantemente accumulato potere politico. I dipartimenti hanno adottato “riforme” che, invece di ridurre il potere della polizia, lo hanno riabilitato e legittimato attraverso programmi di professionalizzazione e aggiornamento, assunzioni che tenevano conto della diversità e strategie di polizia rivolte alla comunità.

La discrezionalità della polizia è stata un obiettivo sfuggente nelle riforme del ventesimo secolo, notoriamente difficile da standardizzare e supervisionare. Senza contare che, essendo una fonte di potere incontrollato, i capi della polizia la proteggevano gelosamente e osteggiavano qualsiasi riforma. Nonostante gli sforzi per limitarne il campo di azione attraverso revisioni delle leggi statali come quelle contro il vagabondaggio, il cuore pulsante della violenza della polizia, ossia l’applicazione discrezionale dell’ordine pubblico, rimase intatto. Grazie a questo meccanismo, gli ufficiali hanno mantenuto il loro potere soffocante sulle strade.

Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta gli stupri da parte della polizia venivano ovviamente insabbiati da una cultura politica che normalizzava gli abusi sessuali: uomini bianchi potevano stuprare donne nere restando impuniti, lo stupro di donne bianche era preso seriamente solo se il presunto colpevole era un uomo nero e i mariti potevano stuprare legalmente le proprie mogli.

Una seconda ondata di proteste contro la violenza della polizia insorse tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Le sex worker e lə loro alleatə femministə e queer sfruttarono le loro esperienze per dimostrare l’esistenza di un collegamento indissolubile tra il mantenimento della morale e le violenze di genere da parte della polizia. Denunciarono i modi in cui la polizia estorceva sesso alle donne che volevano evitare l’arresto. «Ti portano nel furgone della polizia e dicono “se me lo succhi, ti lascio andare”», raccontò una prostituta a un giornalista. A Boston, la violenza di genere da parte della polizia negli anni Settanta prese una crudele piega razzista: il Boston Globe ha riportato che, dopo aver assalito donne nere invece di arrestarle, i poliziotti bianchi le liberavano nella zona sud di Boston a maggioranza bianca, il centro pulsante della campagna contro l’implementazione della diversità nelle scuole, e le spingevano in strada «Suonando il clacson della macchina di pattuglia per attirare l’attenzione dei criminali locali sulle donne terrorizzate». Grazie agli sforzi di gruppi attivisti, l’abolizione delle leggi morali è apparsa sul programma nazionale.

Ma nella metà degli anni Settanta, le autorità legislative, i criminologi e le élite imprenditoriali ostacolarono queste riforme seguendo i principi della teoria delle finestre rotte, secondo la quale per ridurre il rischio di reati più gravi bisogna reprimere i reati minori. Le donne nere schedate per i loro comportamenti sessuali non erano considerate vittime di violenza della polizia; al contrario, erano le città ad essere vittime delle donne nere. Le “prostitute”, per la maggioranza descritte come nere dai mass media, venivano diffamate come criminali violente e per essere la causa di reati più gravi. Per esempio, nel 1979 il direttore generale di un hotel nel centro di Atlanta, scrisse una lettera furiosa al presidente del consiglio comunale, affermando senza portare alcuna prova sostanziale che «Il 90% dei crimini violenti al Marriot è collegato al problema della prostituzione». Peggio ancora, i crimini dei quali presumibilmente queste donne si macchiavano spaventavano e allontanavano investitori e turisti bianchi e borghesi. Sosteneva dunque che fosse necessario aumentare il numero degli ufficiali e dei controlli sui reati minori per mantenere il benessere urbano.

Nonostante i tentativi in alcune città di smantellare il regime delle finestre rotte (quello di New York è il più famoso), continuiamo a vivere in una società fortemente plasmata dalla sua logica, che premia una visione capitalista bianca dell’ordine sociale e non prende in considerazione le vite delle persone nere. Ufficiali militarizzati e dal grilletto facile vengono schierati per garantire la “sicurezza pubblica” attraverso un controllo aggressivo dei reati minori. Vengono esaltati come gli arbitri dell’ordine cittadino, l’unica soluzione contro ciò che la studiosa Clare Sears chiama corpi problematici. È proprio in questo contesto di discrezionalità e autorità soffocante da parte della polizia che le politiche volte a promuovere la sicurezza pubblica sono strutturate come l’inevitabile e inesplicabile terreno fertile per la coercizione sessuale, l’estorsione e l’impiego della forza da parte dello stato.

Minuzie legali, come il divieto di fare sesso penetrativo con le donne accusate di crimini morali, emesso nel 2017 dallo stato del Michigan, falliscono nel proteggere le donne dai poliziotti che rimangono liberi di sfruttare il loro enorme potere. Ma non sono solo le prostitute a essere vulnerabili alle violenze sessuali da parte della polizia. Infatti, le accuse nei confronti delle donne per altri reati minori, come il possesso di droga, le espone al rischio di venire violentate da parte degli ufficiali consapevoli che, a causa dei precedenti, queste hanno un minor accesso ad assistenza legale, influenza politica o risorse monetarie. Eminenti eccezioni di ufficiali chiamati a rispondere per le loro azioni, come Daniel Holtzclaw, poliziotto dell’Oklahoma che stuprava donne nere, o Henry Hollins, il poliziotto di New Orleans che ha rapito e stuprato una donna «Minacciandola con pistola e taser», nascondono tutti gli altri casi passati sotto silenzio in cui gli ufficiali continuano a lavorare, armati e con l’autorità garantita loro dal distintivo.

La polizia continua a estorcere sesso alle donne per evitare l’arresto, proprio come le sex worker attiviste denunciavano circa cinquant’anni fa. Una donna nera intervistata nel 2002 ha affermato: «C’era questo poliziotto che mi ha detto, “Dai, se fai sesso con me non ti arresto.” E io gli ho risposto, “Arrestami pure, perché io non sono gratis”». Uno studio di Washington ha rilevato che a circa una su cinque persone schedate come prostitute erano stati chiesti «favori o servizi sessuali dai poliziotti».

Le leggi sull’ordine pubblico giustificano queste pratiche come un legittimo lavoro investigativo. Le donne trans nere sono particolarmente terrorizzate dalla polizia, sostenuta da leggi come quella newyorkese sulla prostituzione per le strade, largamente derisa come la legge delle “passeggiatrici trans”. Le perquisizioni sono fonte costante di violenze giornaliere: gli ufficiali cercano «Di assegnare un genere, per punire e umiliare le persone trans, per soddisfare la propria curiosità o per gratificazione sessuale», scrive la studiosa di diritto Andrea Ritchie. «È come se noi non potessimo esistere» afferma Bamby Salcedo, fondatrice della coalizione delle donne trans latinoamericane. «La polizia ha interiorizzato tutto questo e perpetra violenza. Perciò, siccome in qualche modo dobbiamo pur sopravvivere, e siccome pare che non dovremmo esistere in questo mondo, siamo perseguitə semplicemente per ciò che siamo».

L’esperienza che le donne hanno della violenza di stato espone la menzogna che vuole la polizia come un servizio di sicurezza e protezione, ma in realtà è la polizia a creare violenza e pericolo. Il mantenimento dell’ordine pubblico dà alla forze dell’ordine l’autorizzazione e la scusa per molestare, arrestare e violentare donne schedate come sex worker semplicemente perché si trovano a camminare per le strade della città. Le donne riportano anche occasionali incontri positivi con alcuni ufficiali, ma la decenza sta alla discrezione del singolo. Infatti, mentre la violenza è chiaramente scolpita sul repertorio legale dei mezzi usati dalla polizia per assicurarsi l’ordine pubblico, la decenza non lo è. Le leggi morali lo rendono non un lavoro di protezione ma di punizione. Nelle parole di una residente anonima di Washington: «Mi sento più in pericolo con la polizia che senza».

Quando ci concentriamo sull’esperienza delle donne con le forze dell’ordine, tutti gli argomenti a favore della loro irriformabilità costruiti per più di un secolo, ci appaiono evidenti. Come per la violenza a spese degli uomini neri, investigatori, investigatrici e attivistə sono consapevoli degli stupri della polizia da decenni. Ma se nel primo caso si è provato a debellarla dai dipartimenti, nel secondo non si è mai sperato di riuscire a raggiungere l’obiettivo.

L’attivismo abolizionista delle donne, fomentato dagli incontri con la polizia, ha cercato con forza di trovare modi per smantellare la violenza interna e inevitabile delle forze dell’ordine. Perché la violenza della polizia si riduca significativamente, bisogna negare agli ufficiali l’autorità discrezionale sui corpi delle donne. Questo impedirebbe il mantenimento coatto di una visione predatrice dell’ordine pubblico, una che è ostile alle diversità, alla povertà e alla disabilità. Le grandi somme di denaro ora destinate a missioni sotto copertura, maggiori controlli, incursioni e a ripulire le strade dovrebbero essere ridirette al welfare sociale, a dare alloggi, all’educazione e alla sanità, con una barriera impermeabile che separi la polizia dalla distribuzione di queste risorse. Questo approccio di genere volto a ridurre i fondi ai dipartimenti di polizia è il passo essenziale per smantellare il potere delle forze dell’ordine.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Boston Review e trovate la versione originale qui. L’autrice, Anne Gray Fischer, è una docente all’Università del Texas e si occupa di studi di genere, razza e forze dell’ordine.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/valentina/" target="_self">Valentina Pesci</a>

Traduzione a cura di: Valentina Pesci

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