Una rappresentazione diversa per le donne vittime di stupro
Storie che propongono una prospettiva nuova su sentimenti antichi: rabbia, vendetta, desiderio di riscatto.

All’inizio della pandemia, quando ci siamo rifugiatə nelle nostre case, in un’esplosione di energia e ottimismo mai più provato da allora, ho fondato un club del libro online. Ho scelto il romanzo d’esordio di Lara Williams Le divoratrici, che avevo letto da poco: ho pensato che un libro in cui un gruppo di donne si incontra di persona avrebbe offerto una consolazione indiretta in un momento di tale incertezza e solitudine. La protagonista, Roberta, una giovane donna che si sente smarrita, instaura un’intensa amicizia con Stevie, un’artista bizzarra, impertinente, sicura di sé e magnetica, che rappresenta tutto ciò che lei non è. Insieme fondano il Supper Club, uno spazio in cui le donne possono mangiare quanto vogliono. «Cosa viola le norme sociali più di un gruppo di donne che si ritrovano per assecondare la loro fame e per riappropriarsi dei loro spazi?» riflette Roberta.

Procedendo con la lettura, si intravedono scorci del passato di Roberta: quando era giovane il padre l’ha abbandonata; all’università, è stata violentata da un conoscente e ha avuto una relazione con un uomo più vecchio, Arnold, che la manipolava emotivamente e psicologicamente. Sebbene dalle premesse possa sembrare una storia bonaria sul cibo, sull’amicizia e sulla dissolutezza femminile, in realtà si tratta di un racconto in cui un gruppo di donne si riunisce dopo aver subito un trauma per creare degli spazi sicuri.
Procedendo con la lettura, si intravedono scorci del passato di Roberta: quando era giovane il padre l’ha abbandonata; all’università, è stata violentata da un conoscente e ha avuto una relazione con un uomo più vecchio, Arnold, che la manipolava emotivamente e psicologicamente. Sebbene dalle premesse possa sembrare una storia bonaria sul cibo, sull’amicizia e sulla dissolutezza femminile, in realtà si tratta di un racconto in cui un gruppo di donne si riunisce dopo aver subito un trauma per creare degli spazi sicuri.
Verso la fine del romanzo, anni dopo aver lasciato Arnold, Roberta accetta di incontrarlo per pranzo. Si trovano in un bar e Arnold, con una mossa tipicamente maschile, spiega i pericoli di etichettarsi come “femminista”. Quando il cameriere arriva con il loro cibo, una zuppa di crescione per Roberta e un báhn mì per Arnold, qualcosa cambia. «Posso assaggiarlo?» chiede Roberta. «Il tuo panino. Possiamo fare a cambio? Non voglio la zuppa. Non so perché l’ho chiesta». Williams descrive così la scena:
Ho alzato la scodella e gliel’ho passata. Arnold l’ha presa perché non aveva scelta e mi ha osservata mentre prendevo il suo báhn mì portandolo davanti a me. L’ho afferrato con entrambe le mani e ne ho preso un grosso boccone prima che potesse protestare. Ho sentito piccoli pezzi di chili solleticare piacevolmente la mia lingua. Ho emesso un suono godereccio. Poi, con la bocca ancora piena ho iniziato a parlare: «Devi vergognarti,» gli ho detto. «Devi davvero vergognarti di avermi appena spiegato il femminismo».
Roberta non ha vendicato lo stupro subito, non c’è nemmeno un modo per eliminare il peso che tale violenza infligge alle vittime, ma ha riacquistato il proprio potere, anche solo appropriandosi di un panino che non era suo. Anche se durante il club del libro non me ne ero ancora resa conto, queste storie in cui le donne fanno i conti con le violenze subite sarebbero entrate a far parte in maniera preponderante del mio anno di riposo causato dalla pandemia.
«A nessuno piace una donna furiosa,» canticchia Taylor Swift in un singolo uscito durante la pandemia. «È un peccato che sia diventata pazza». In questa canzone, intitolata Mad Woman, Swift esplora il concetto di “furia” in entrambi significati che assume quando è usato per descrivere una donna come “arrabbiata” e “pazza”. Numerose autrici e attiviste, come Audre Lorde, Brittney Cooper e Rebecca Traister, per citarne alcune, hanno esplorato diffusamente il potere insito nella rabbia delle donne, e tante altre hanno documentato la tradizione storica che le liquida come “isteriche”. Che alle donne venga affibbiata questa etichetta non è nulla di nuovo: io e un’amica ci riferiamo all’aggettivo “pazza” come la “parola con la P”, un insulto particolarmente offensivo se pronunciato da un uomo. Tuttavia è molto più che offensivo, è pericoloso e riduce la credibilità delle donne.
Cassie, la protagonista del nuovo film di Emerald Fennel Una donna promettente, passa i suoi weekend fingendo di essere ubriaca per farsi accompagnare a casa dagli uomini e sorprenderli con la sua sobrietà e una severa strigliata (a volte qualcosa di più): tutto questo è parte di un piano per vendicare lo stupro e la morte della sua migliore amica. Come Le divoratrici, Una donna promettente è la storia di un trauma che potrebbe essere mal interpretata a causa del tentativo di alleggerire l’atmosfera e della sua premessa giocosa.

La colonna sonora zuccherosa, che comprende Stars are Blind di Paris Hilton, e le sfumature vivaci del film (bar con insegne al neon, una tavola calda vecchia scuola, le unghie smaltate di Cassie e file di dolci dai colori sgargianti) fanno da contraltare alla misoginia imperante, proveniente in egual modo da uomini e donne. Cassie viene costantemente ignorata e considerata pazza. Viene chiamata psicopatica. Viene chiamata sociopatica. Viene chiamata «una pazza puttana del cazzo». Dopo essere stata chiamata folle, risponde all’offesa: «Sai, non credo di esserlo». Quando confondiamo un tipo di furia (la rabbia) per un’altra (la follia) mettiamo le donne ancora più in pericolo, poiché se sono pazze non dobbiamo credere a ciò che dicono.
La vendetta maschile è, invece, caratteristica tipica dei supereroi, un soggetto con una ricca storia e un’industria tutta sua. «Quante persone indossano un mantello da Batman in cerca di vendetta?», mi ha chiesto di recente un’amica, ed è una domanda interessante. Gli uomini cercano vendetta, mentre le donne sembrano solo avere un caso particolarmente grave di sindrome premestruale. Pur vedendo spesso donne stuprate e maltrattate nei film e nella letteratura, più di rado vediamo la loro rabbia in risposta a tali violenze. Questa cancellazione della rabbia può rendere sia il trauma che la reazione della vittima “poco credibili”.
Durante il club del libro online, quando abbiamo parlato della scena del báhn mì in Le divoratrici, un uomo etero cisgender ha commentato che questa scena in particolare, e il libro più in generale, erano interpretabili come la fantasia vendicativa di una donna. Lo ha detto come se fosse una cosa sbagliata, come se non fosse credibile che delle donne si riunissero per mangiare in questo modo. Come se fosse impossibile che Roberta prendesse il panino di Arnold. Come se tutto questo fosse meno credibile di un uomo che sviluppa superpoteri in seguito al morso di un ragno. Forse Le divoratrici risulterebbe più credibile se non fossimo desensibilizzati alla rabbia delle donne dopo la violenza. La rarità di queste rappresentazioni spiega la ragione per cui l’uomo nel nostro club del libro fosse scettico, mentre tutte le altre hanno apprezzato il romanzo. Per il resto del gruppo, Le divoratrici ha soddisfatto il nostro desiderio di vedere donne arrabbiate rivendicare il proprio potere. Anche se il suo violentatore non viene punito, Roberta riprende in mano la propria vita, rigirando la famosa battuta del «fammi un panino».
La reazione delle persone nel mio club del libro, mi fa riflettere su CHI si occupa di fare le statistiche sull’incidenza degli stupri. Se la media globale (una su tre) si iscrivesse a un club del libro composto da dieci donne, non sarei l’unica vittima di violenza sessuale nella stanza Zoom. Ma mentre parlavamo di Le divoratrici lo scorso aprile, non mi vedevo come una vittima di violenza. Ero semplicemente una lettrice incoraggiata dalla ritrovata forza da parte di Roberta, anche se sotto forma di un báhn mì rubato.

Circa un mese fa, ho visto la mini-serie di Michaela Coel, I May Destroy You. Giorni prima del mio weekend di binge-watching, avevo firmato un contratto con un’agenzia letteraria, un traguardo che aspettavo di raggiungere da anni, e volevo passare il fine settimana a guardare qualcosa di bello in tv. Di I May Destroy You sapevo solo che trattava del periodo successivo a uno stupro e mi era stato caldamente consigliato da un’amica.
Nel primo episodio, Arabella, una giovane scrittrice inglese nera, scopre di essere stata violentata, ma non sa da chi, perché è stata drogata. Arabella è alle prese con le conseguenze psicologiche, emotive e professionali dello stupro. È stata aperta un’indagine sul suo caso, ha terribili flashback e, come donna nera, è costretta ad affrontare le forze combinate di sessismo e razzismo.
Qualche episodio dopo, Arabella fa sesso con un altro uomo, cosa di per sé già difficile per lei dopo lo stupro, e il suo partner, Zain, si toglie il preservativo durante il rapporto. «Pensavo te ne fossi accorta», le dice quando lei scopre l’accaduto. «Quel preservativo era troppo scomodo».
L’episodio successivo si apre con Arabella nel letto di Zain, suggerendo che i due hanno iniziato a vedersi regolarmente. Un po’ dopo, mentre Zain si sta facendo la doccia, Arabella ascolta un podcast in cui un’altra donna racconta l’esperienza della rimozione del preservativo senza consenso (pratica conosciuta come “stealthing”, di cui sono vittime persone di ogni genere). In quel momento Arabella capisce che Zain l’ha violentata. Lascia immediatamente l’appartamento, e solo quando torna alla stazione di polizia per integrare la sua deposizione precedente, scopre che quell’azione è giudicata stupro non solo moralmente, ma anche legalmente. La sera stessa, a un incontro di scrittori e scrittrici, a cui partecipa anche Zain, essendo lui stesso uno scrittore, Arabella furiosa annuncia:
Zain Sareen è uno stupratore. Si è tolto il preservativo mentre faceva sesso con me. Ha placato il mio shock e mi ha manipolata con tale sicurezza che non ho avuto tempo di capire il crimine atroce che aveva appena avuto luogo. Credo sia un predatore sessuale… È uno stupratore, non mi ha quasi stuprata, non è un po’ violento, secondo la legge inglese lui è uno stupratore.
Anche se questo momento sembra rappresentare un successo per Arabella e le altre vittime, è solo una falsa vittoria. Negli episodi successivi, Zain viene “cancellato”, ma il suo libro viene pubblicato sotto uno pseudonimo femminile. Nel frattempo, la vita di Arabella continua a cadere a pezzi. Dopotutto è stata stuprata non una, ma ben due volte. Per dirla con le parole della deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che di recente ha spiegato come le rivolte nella Capitale abbiano risvegliato il suo trauma causato dalla violenza sessuale, il trauma di Arabella “aumenta”. Oltre a tutte le violazioni terribili subite per mano degli uomini, Arabella sta affrontando anche il blocco della scrittrice. Ha perso la sua agente, il suo contratto ed è consumata dai social media nel suo nuovo ruolo di protettrice delle vittime.

Pur sentendo I May Destroy You molto vicino, poiché racconta la storia di una scrittrice, fino a che non ho visto questa serie non sapevo che una violenza che avevo subito a vent’anni era considerata stupro in altri paesi. Non era solo un evento isolato che sembrava di cattivo gusto. Era una violazione per la quale sentirsi arrabbiate, una violenza per la quale avrei potuto cercare vendetta.
Quando avevo vent’anni, per un breve periodo, ho frequentato un uomo che, secondo l’opinione più diffusa, era un vero stronzo. (Un tipo diverso di stronzo rispetto a quello che mi ha violentata, ci tengo a specificare, per quel che conta). Un giorno mentre eravamo seduti sul divano nel mio appartamento, ha fatto riferimento a un romanzo classico che non avevo mai letto. Doveva essere Don Chisciotte, non ricordo, e probabilmente ancora oggi non l’ho letto. Invece di fingere di capire il riferimento gli ho chiesto di spiegarmelo. Mi ha guardato esterrefatto.
«Ma hai mai letto un libro?» mi ha chiesto sdegnato.
Gli ho detto che era stato maleducato, ma quello che non avevo ancora capito era che se avessi disegnato un diagramma di Venn con i libri letti da entrambi probabilmente i nostri cerchi non si sarebbero mai toccati. Forse sarebbero parsi come pianeti di universi lontani. Ed è questo il problema di quelle liste di libri che “devi assolutamente leggere” prima di morire, sono sbilanciate in favore di vecchi uomini bianchi, non considerano le donne, tantomeno quelle come Arabella: donne di colore che stanno affrontando le conseguenze di uno stupro. Per molti uomini, questo genere di storie non conta nemmeno come lettura, figuriamoci se le considerano parte della Letteratura. Se una storia è lontana dall’esperienza dei lettori, non viene nemmeno presa in considerazione, figuriamoci essere credibile.
In una recente recensione del documentario Framing Britney Spears (qui potete trovare la recensione del documentario tradotta da noi), la scrittrice Tavi Gevinson sottolinea l’erronea insinuazione che la Britney adolescente avesse il pieno controllo della propria sessualità. Gevinson esplora il problema dell’adescamento di minori e degli squilibri di potere nelle sue relazioni sentimentali, riferendosi in special modo a un’esperienza avuta all’età di diciotto anni. Scrive che ora, a ventiquattro anni, capisce meglio la propria risposta alla violenza sessuale:
Vivo con una collera che ribolle sotto la superficie, consapevole che lui non può pensare a questi incontri tanto quanto me; e mi chiedo se i miei occasionali desideri di vendetta e castigo (semplici pensieri nella mia testa) compromettano la mia rispettabilità, e di conseguenza la mia credibilità. Arrivo così a convincermi che non è successo niente, basandomi sulla percezione di me come vittima (vendicativa, col cuore a pezzi, una che sapeva quello a cui andava incontro) piuttosto che sulle azioni dell’altra persona (la sola ragione per cui siamo arrivati a questo punto).
Mi chiedo se la vergogna di Gevinson riguardo la sua rabbia e le sue fantasie di vendetta, così come la sua preoccupazione che queste possano compromettere la sua credibilità, nasca in parte dalla mancanza di visibilità data a questo tipo di sentimenti generati dal trauma.
Mi dispiace per gli uomini che evitano le storie di stupro, storie che non riflettono la loro esperienza, storie nelle quali statisticamente loro assomiglieranno più allo stupratore che alla vittima. Ma mi dispiace molto di più per coloro (statisticamente le donne) che hanno subito una violenza sessuale. Nel suo memoir Io ho un nome Chanel Miller incoraggia le lettrici a leggere storie sullo stupro:
Negare il buio non porta nessuno più vicino alla luce. Quando ascoltate racconti di stupro, ricchi di dettagli grafici e inquietanti, resistete all’istinto di voltarvi dall’altra parte, guardate più da vicino, perché sotto il sangue e i verbali della polizia c’è una persona vera e bellissima, che sta cercando modi per tornare a vivere.

Il bisogno di abbracciare ciò che troviamo scomodo non è un semplice esercizio di empatia, è un modo per aumentare la credibilità di queste storie così da separare la rabbia dagli altri tipi di pazzia. Il 35% di noi (e questa è una delle prime volte che includo me stessa in un “noi” che si oppone in modo binario a un loro) che ha subito violenza sessuale, è colpito da queste storie in modo viscerale. Non si tratta di un concetto astratto. Ritorniamo nel luogo dove siamo state violentate; ci svegliamo la mattina dopo confuse, piene di vergogna e arrabbiate nei confronti degli uomini che ci hanno fatto del male e del sistema che ci ha tradite e abbandonate.
In Io ho un nome, Miller riflette sull’importanza dell’immaginazione come mezzo per guarire dalla depressione dopo lo stupro in un caso con una grande copertura mediatica. «Quando mi sentivo depressa,» dice, «Scrivevo e immaginavo il mio futuro… Il bisogno che avevo di vederlo realizzato così come lo pianificavo non era importante. Era l’atto di immaginarlo a esserlo».
Non dobbiamo sottovalutare il potere dell’immaginazione. Se non avessi visto I May Destroy You, forse non avrei mai fatto i conti con il mio trauma personale. Non sono certa che ascoltare un podcast come Arabella avrebbe avuto su di me lo stesso impatto che ha avuto vedere lei ascoltarlo, reagire e infine cercare vendetta su Zain. Osservando la sua reazione, ho dovuto usare la mia immaginazione e rivolgere l’empatia che accordavo a lei anche a me stessa.
Di certo la scena in cui Arabella accusa apertamente Zain per me era credibile alla luce della mia esperienza personale, ma lo erano altrettanto lo scambio in merito al báhn mì in Le divoratrici e il passatempo del fine settimana di Cassie in Una donna promettente, perché dopo aver letto e guardato tante storie che dipingono le donne agire per la rabbia, questa ai miei occhi è stata normalizzata. Non è sorprendente, non è il comportamento di una persona instabile. E anche se mi piace pensare che questa consapevolezza sia sufficiente (che convincere anche gli uomini cisgender sia irrilevante), so che è strategicamente importante conquistarli, se si considera le statistiche di genere sui giudici e i legislatori americani (allerta spoiler: sono in maggioranza uomini).
Sebbene la deputata californiana Cristina Garcia stia lavorando sul fenomeno dello stealthing sin dal 2017, ha di recente introdotto una proposta di legge (la n° 43) sulla rimozione non consensuale del preservativo, che inserirà questa pratica nel codice civile californiano. Nel comunicato stampa, Garcia scrive:
Non mi fermerò finché chi perpetra questo atto non sarà obbligato a risponderne. Le violenze sessuali, specialmente quelle sulle donne di colore, vengono spesso nascoste sotto il tappeto. Lo stigma che le ricopre è talmente radicato che, sebbene I May Destroy You di Michaela Coel abbia ricevuto delle magnifiche recensioni per la sua efficace rappresentazione degli orrori della violenza sessuale, incluso lo “stealthing”, la serie non ha avuto alcuna nomination ai Golden Globe. Non mi sembra né un caso né una coincidenza.
Anche se, come molti altri, penso che la mancanza di nomination per I May Destroy You sia dovuta più al razzismo che a una mancanza di comprensione riguardo allo stealthing, entrambe le ragioni potrebbero essere vere. Tuttavia, attraverso questa proposta di legge, l’impatto di Coel potrebbe avere più risonanza di quella che avrebbe potuto darle la vincita di un premio. I May Destroy You ha dato visibilità a questo problema, ha mostrato la rabbia in seguito allo stupro, e la sua esistenza ha creato uno spazio per altre storie che trattano lo stesso tema. E come sempre, dobbiamo ringraziare le donne di colore che guidano la carica e apportano cambiamenti significativi nella nostra immaginazione, come Coel, e nella legislazione, come Garcia.
A prescindere da quale sia la modalità (che sia un racconto violento di vendetta dello stupro, la storia di una donna che semplicemente immagina di vendicarsi o quella di una sopravvissuta che riprende in mano la propria vita con gesti apparentemente piccoli) le storie che raccontano il venire a patti con lo stupro sono il mezzo per incitare cambi personali e culturali.
Qualche settimana fa, ho visto la live su Instagram in cui la deputata Ocasio-Cortez raccontava pubblicamente di essere sopravvissuta a una violenza sessuale. Mentre la ascoltavo raccontare di come le rivolte nella capitale avevano risvegliato il suo trauma, mi chiedevo se stiamo entrando in un’epoca in cui non solo condividere queste storie è largamente accettato ma anche elogiato. Un’epoca in cui il coraggio ha il volto di una rappresentate politica che rivela il proprio trauma, piuttosto che un eroe in maschera che combatte un malvagio. Ma poi ci sono i detrattori, i negazionisti, i dubbiosi, e mentre leggo le loro risposte mi chiedo: «Ma avete mai letto un libro?», domandandomi se tra coloro che fanno questi commenti beffardi qualcuno abbia mai letto storie di vittime. Se così non fosse, sarei più che felice di condividere la mia lista di letture, anche se potrebbe sorprendervi scoprire che sotto quella felicità sono molto infuriata.
Questo articolo è stato scritto da Rachel Zarrow per Electric Literature: potete trovare l’originale qui. Rachel Zarrow è una scrittrice, tra le riviste con cui collabora c’è anche The Atlantic. Ora sta lavorando al suo primo romanzo.