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Festa del lavoro? chiediamo uguali diritti

Il primo maggio è l’occasione per riflettere sulla condizione precaria delle lavoratrici domestiche, discriminate in quanto donne e migranti.

Vorrei cominciare questo articolo sul primo maggio con una riflessione relativa a un’altra data particolarmente significativa, l’otto marzo. Una giornata per la quale noi donne ci organizziamo con sempre maggiore forza per rivendicare i nostri diritti. Da Bombay a Buenos Aires, passando per Los Angeles e Madrid, e un altro centinaio di città e paesi in tutto il mondo, noi donne scendiamo in piazza, stanche di non essere ascoltate, di essere discriminate, violentate e assassinate impunemente.

L’otto marzo del 2021 con alcune compagne dell’associazione Mujeres Migrantes Diversas, che riunisce centinaia di lavoratrici domestiche e badanti di tutta la Catalogna, abbiamo vissuto in prima fila e con gioia immensa la grande manifestazione di Barcellona. Eravamo lì non solo per noi stesse ma anche per tutte le badanti interne che non potevano manifestare quel giorno insieme a noi e con le quali ci tenevamo in contatto, scambiandoci foto e video via messaggio. Una delle cose più belle è che più e più volte abbiamo cantato «Non ci siamo tutte, mancano le interne!». Tuttavia, sul finire della manifestazione nel gruppo è sorta in modo spontaneo una riflessione, nata dalla sensazione contraddittoria che, dopo questa esplosione di sorellanza, alla fine della marcia ognuna di noi sarebbe dovuta tornare al posto assegnatole nella nostra società.

Seppur sia innegabile che noi donne siamo tutte colpite dalle disparità e dalle discriminazioni, è anche vero che non tutte le affrontiamo dalla stessa posizione: le collaboratrici domestiche e le badanti, in special modo le interne, ne sono di certo l’esempio più lampante. Questa collettività è difatti colpita come poche da una triplice discriminazione in quanto donne, migranti e razzializzate.

In pratica si tratta di donne, quasi sempre migranti, che si occupano di persone anziane in condizioni di grande bisogno e che vivono nella casa dove lavorano. Le badanti hanno dalle 10 alle 12 ore di riposo alla settimana, o addirittura meno; condividono la casa con la persona di cui si occupano, che spesso soffre di Alzheimer o demenza, e dedicano la propria vita al benessere altrui, spesso finendo per trascurare la cura di sé stesse.

Si tratta di donne che lavorano chiuse tra quattro mura e guadagnano non di più di 800 o 900 euro al mese. Molte compagne, dopo aver vissuto per più di cinque anni in queste condizioni, cominciano ad avere problemi di autostima, depressione, insonnia, di perdita di memoria e abilità sociali. Ci sono compagne che sono obbligate dalle famiglie a pagarsi i pasti o le spese di acqua e luce. A volte i loro capi le umiliano, le minacciano verbalmente e fisicamente, e in alcuni casi vengono abusate sessualmente.

Alla Asociación Mujeres Migrantes Diversas e Integradora Social (Associazione per le donne migranti e per l’integrazione sociale) arrivano spesso esperienze davvero raccapriccianti, che io stessa non avrei creduto possibili se non le avessi viste con i miei occhi. Come il caso di una compagna badante che, dopo essersi ammalata gravemente, fu portata dalla famiglia in macchina e abbandonata barcollante davanti alla porta dell’ospedale perché «Non volevano problemi». O compagne alle quali si concede di andare dal medico a condizione che portino con sé la persona anziana di cui si occupano, perché, per dirla con le parole della famiglia, «Chi altri se non tu si può occupare del nonno?»

Alcune delle situazioni più difficili si presentano quando badanti, che per anni hanno convissuto con una persona affetta da demenza senile, cominciano a sviluppare squilibri emotivi evidenti. E mentre la persona bisognosa riceve sempre meno cure, ci si trova di fronte alla totale passività della famiglia, che continua a negare l’evidenza: la badante ha urgente bisogno di aiuto.

Circa quattro anni fa ci siamo accorte che le condizioni lavorative stavano peggiorando in questo settore: le donne appena arrivate, soprattutto quelle provenienti dall’America Centrale, ma anche da altri paesi, soffrivano in solitudine un enorme sfruttamento. Per questo, con un gruppo di donne di Barcellona abbiamo deciso di creare un’associazione per le collaboratrici domestiche.

Noi promotrici siamo tutte donne migranti e lavoriamo come interne, o lo abbiamo fatto fino a poco tempo fa. Io stessa ho lavorato come interna a Barcellona occupandomi di una signora anziana affetta da demenza. Sono stati sei anni duri e di grande solitudine, durante i quali ero chiusa in casa ventiquattro ore al giorno e avevo a disposizione solo nove ore libere in tutta la settimana. In seguito ho lavorato in residenze per anziani e oggi sono una collaboratrice domestica per il servizio municipale di assistenza domiciliare di Barcellona (SAD), un servizio tutto al femminile e precario.

L’associazione che abbiamo creato, e che abbiamo chiamato Mujeres Migrantes Diversas, è formata da donne migranti che lavorano come collaboratrici domestiche, principalmente come interne. Sin dall’inizio ci siamo poste l’obiettivo di creare uno spazio dove potersi emancipare e che, nel rispetto delle diversità, funzionasse sotto alcuni principi: un’organizzazione trasformatrice, orizzontale, femminista, antirazzista, pro LGBTQIA+ e che puntasse a diffondersi in rete e a collaborare con altre organizzazioni.

La nostra associazione offre corsi di formazione in geriatria, diritti dei lavoratori, alfabetizzazione digitale e catalano; e anche consulenza su temi come l’immigrazione e le questioni lavorative. Accompagniamo chi ne ha bisogno a sporgere denuncia, al municipio per questioni amministrative o dal dottore. Inoltre cerchiamo di avere un impatto politico e sociale, dando visibilità e denunciando le situazioni che viviamo.

Sono sempre di più i collettivi che, in Spagna, America Latina e nel resto del mondo, si stanno organizzando per difendere i nostri diritti. Siamo unite da lotte condivise, come la ratifica della Convenzione 189 della OIL, con la quale nei paesi firmatari si equiparano i diritti delle lavoratrici domestiche a quelli di qualsiasi altra categoria. Ad esempio, l’accesso alla disoccupazione, al fondo di garanzia salariale e alla normativa per la sicurezza sul lavoro. Per quanto questo possa sembrare incredibile, nel 2019 le lavoratrici domestiche spagnole non avevano ancora accesso a questi diritti.

Sin dall’inizio ci siamo poste l’obiettivo di creare uno spazio dove potersi emancipare e che, nel rispetto delle diversità, funzionasse sotto alcuni principi: un’organizzazione trasformatrice, orizzontale, femminista, antirazzista, pro LGBTQIA+ e che puntasse a diffondersi in rete e a collaborare con altre organizzazioni.

Questo movimento ha una portata globale e stiamo cominciando a tessere reti e a conoscere i collettivi degli altri paesi. Vittorie come la recente incorporazione delle lavoratrici domestiche messicane al regime di previdenza sociale sono state motivo di grande gioia e un punto al quale aspirare per paesi come la Spagna.

Il movimento globale delle lavoratrici domestiche e delle badanti non solo rivendica migliori condizioni lavorative, ma pone sul tavolo altri dibattiti che vanno oltre, come la divisione di genere insita in questo lavoro e la crisi del lavoro di assistenza. Nella nostra causa convergono il femminismo e i diritti delle lavoratrici. L’unione di queste lotte sviluppa nuove forme, pratiche e discorsi che ampliano il campo di azione tradizionale del sindacalismo. Siamo un movimento profondamente femminista che agisce per dare potere politico alle donne migranti e che ci porta a riflettere costantemente sulla nostra condizione lavorativa.

Il nostro movimento è cresciuto in modo autogestito e si è abituato a procedere in mancanza di risorse e visibilità. Tuttavia, sebbene presupponga una contestazione globale e profonda delle strutture sociali, nasce in una situazione talmente ingiusta che ha bisogno di raggiungere obiettivi tangibili che si traducano in miglioramenti urgenti delle effettive condizioni di vita delle nostre compagne, e insieme esplorare nuovi modi di rapportarsi e coordinarsi con le altre organizzazioni. In Spagna in questo senso ci sono esperienze innovatrici e molto interessanti di collaborazioni a cominciare dal mutuo riconoscimento tra lavoratrici domestiche e organizzazioni sindacali, in campi come la denuncia e la consulenza relativa agli abusi sul luogo di lavoro, la formazione sui diritti dei lavoratori e la prevenzione dei rischi sul lavoro.

Non posso concludere senza fare una riflessione finale. Viviamo in tempi inquietanti in cui hanno sempre più peso discorsi non solidali e di rifiuto dell’altro. Lo vediamo negli Stati Uniti, in Brasile, in Italia, e di questi tempi anche in Spagna, con l’ascesa di partiti di estrema destra. Noi donne femministe dobbiamo stare in prima linea contro il neofascismo, andare a braccetto con le compagne dei movimenti trasformatori.

Davanti alla rinascita dell’estrema destra arriva il momento di unire le lotte, mescolarci e tessere legami tra i diversi movimenti di emancipazione. Siamo tutto quello che loro disprezzano: nere, indigene, gay, mussulmane, lesbiche, ebree, gitane, protettrici dei diritti civili e sociali, dell’ambiente, delle nazioni senza stati, transessuali, migranti, sindacaliste, femministe… Combattiamo insieme, libere, organizzate e unite, per sconfiggere i discorsi di odio e cambiare questa società capitalista, razzista e patriarcale. Camminiamo verso un nuovo orizzonte più giusto, egualitario e inclusivo. Per questo e perché questa è anche la nostra giornata: viva il primo maggio!

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Revista Amazonas e trovate la versione originale qui. L’autrice, Carmen Juares, è un’infermiera e collaboratrice domestica immigrata dall’Honduras a Barcellona ed è la fondatrice della Asociación Mujeres Migrantes Diversas e Integradora Social.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/valentina/" target="_self">Valentina Pesci</a>

Traduzione a cura di: Valentina Pesci

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