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Diana Spencer: la regina della classe media

In Spencer di Pablo Larraín, Diana viene rappresentata come la personificazione del sentimento popolare.

Quando Diana rimase uccisa in un incidente stradale nell’agosto del 1997, mio padre ci portò sulla spiaggia a Eastbourne. C’era vento, non c’era nessuno e noi restammo lì per ore senza aver accesso a tv o telefono. Il punto era proprio questo: mio padre voleva evitare a tutti i costi l’ondata di sentimento monarchico che aveva travolto l’evento. Ma questa decisione ci portò anche a ignorare il repubblicanesimo ribelle che si era cristallizzato attorno alla vita di Diana e che avrebbe caratterizzato anche la sua morte. I commentatori dell’epoca colsero questo tratto sovversivo. Sulla rivista New Statesman, Darcus Howe scrisse che Diana aveva messo in luce un cambiamento nella politica britannica, «non [si trattava di] un semplice colpo di testa seguito da isteria […] quanto piuttosto di un’entrata in scena misurata, provocata dalla morte della sua comandante in capo, Diana Spencer. Un movimento che sobbolliva da tempo sotto la superficie della società britannica». Per molte persone, lo scontro di Diana con il Principe Carlo e l’intervista ormai controversa concessa a Martin Bashir nel 1995, in cui dichiarò che non se ne sarebbe «rimasta zitta» e avrebbe «lottato fino alla fine» per proteggere i suoi figli dalla famiglia reale, rendono Diana un’icona del repubblicanesimo britannico.

Negli anni successivi, alcune analisi più ciniche sulla politica di classe britannica hanno rifiutato la lettura ribelle di quel momento, valutando Diana come una figura più passiva. Hilary Mantel intrattiene l’idea che la principessa stesse «reagendo» e non che si stesse «ribellando», dipingendola come una snob capricciosa: «Fare una scenata quando si viene ostacolate non fa di te uno spirito libero. Alzare gli occhi e scrollare le spalle non dimostra il tuo coraggio». Nel frattempo la storia di Diana subisce una perpetua rinascita audiovisiva, dalla Diana impacciata nel film di Oliver Hirschbiegel Diana – La storia segreta di Lady D (2013) alla recente e meticolosa interpretazione di Emma Corrin in The Crown, fino a un flusso costante di documentari scandalistici, che continuano ad aggiungere dettagli alla narrazione della sua vita pubblica. In Spencer di Pablo Larraín, il mito viene rimodellato ancora una volta, rappresentando al contempo Diana sia in termini di ostilità rivoluzionaria che di idealismo borghese introspettivo, presentando una critica alla monarchia analizzata attraverso il melodramma della psiche. Ma se le precedenti narrazioni su Diana hanno riprodotto fatti biografici in modo lineare, l’istantanea concettuale e contraddittoria di Larraín, che rimbalza tra scene di intenso dramma, di tragedia e ilarità, potrebbe dirci qualcosa di più interessante sulla società britannica?

Con Spencer, Larraín ha ignorato una visione più completa, mettendo in scena un solitario fine settimana del Natale del 1991 nella residenza reale di Sandringham. Basandosi su interviste a persone presenti all’epoca dei fatti, il film descrive nel dettaglio i conflitti che sarebbero poi fuoriusciti formando onde sismiche di sentimenti anti-monarchici. Mentre Il Gattopardo di Visconti (1963), un film canonico sulla morte di una dinastia, si serviva di scene di battaglia, folle e scontri familiari per rappresentare il fermento politico, Spencer lavora per recuperare sentimenti storici stratificatisi negli anni in un unico spazio e tempo, racchiudendo un’intera vita in un momento, un microcosmo di più ampio significato politico. La tenuta di Sandringham viene mostrata dapprima con un’inquadratura dall’alto che segue l’Alfa Romeo decappottabile di Diana lungo l’ampio viale centrale. Il film inizialmente ci allontana dalla protagonista seguendola attraverso un sistema di sorveglianza di Stato, passando però ben presto a riprese soffocanti che vedono Diana scalpicciare su pavimenti tirati a lucido col disinfettante o camminare con passo felpato ma deciso su antichi tappeti intrisi di polvere impenetrabile: «La Regina Vittoria dormiva qui. Ci sarà la sua pelle che fluttua nell’aria». I maestosi interni fiocamente illuminati da candele sono ripresi nei minimi dettagli. La direttrice della fotografia Claire Mathon tinge la palette colori di un caldo giallo malaticcio, anche se la casa è gelida, quasi a ironizzare sulla stucchevole allegria della stagione. Le stanze pesanti, tetre e ingombre di oggetti vengono rese tollerabili solo dalla costante presenza di un centinaio di domestici intenti a pulirle. Spencer è un film sfarzoso, nel quale il dramma e i dettagli della vita (e degli abiti) di Diana vengono contrapposti alla diligente anti-spettacolarità della famiglia reale, che non può mai essere vista mentre gode della sua sempre abbondante ricchezza: un modo per attenuare l’evidente disparità sociale e preservare l’idea di un ordine nazionale naturale e necessario.

Il rifiuto di Larraín di descrivere la famiglia reale nei dettagli è centrale nella critica estetica che la pellicola rivolge al potere dell’alta borghesia, in cui l’autorità viene dimostrata attraverso la distanza e il distacco. Per tutta la durata del film, la famiglia viene spinta saldamente in fondo a ogni inquadratura, sfocata e lontana. Quando la macchina da presa passa in rassegna il tavolo da pranzo o si trascina per il salotto, i loro volti scorrono in gran parte non identificati, figure rese uniformi da abiti damascati troppo ricamati, spesse coperte in tweed e acconciature con riccioli cadenti. Raramente si sente qualcuno di loro parlare. Il loro silenzio è sprezzante tanto quanto il modo in cui mettono a tacere chi si oppone. Tutto questo dà sollievo: per una volta ci viene risparmiata la strabordante sagacia della Principessa Margaret. All’apice di uno di questi faccia a faccia non verbali, Diana si strappa dal collo le enormi perle, un odiatissimo dono di Carlo, che ha regalato la stessa collana anche a Camilla. Dopo che le perle sono cadute nella cremosa vellutata verde, Diana le raccoglie a una a una con un cucchiaio dorato e le divora, abbuffandosi dei simboli della classe che è arrivata a detestare.

Spesso la sceneggiatura, carica di metafore, si muove in modo così plumbeo che i deboli tentativi di satira si trasformano ovviamente in farsa (ci si chiede quante battute possa inserire lo sceneggiatore Steven Knight sulla preferenza di Carlo per le verdure biologiche). Ma la vera forza del film sta nella drammaticità. Facendo eco ai movimenti ansiosi della macchina da presa e ai tagli rapidi, la ripetitiva colonna sonora di Jonny Greenwood, che si infrange sugli organi della chiesa il giorno di Natale o cresce lenta e terribile durante la cena, è sempre esagerata. In altre scene, i sentimenti di Diana vengono inesorabilmente esternati grazie a continui primi piani e rappresentazioni drammatiche. Come scrive Girish Shambu a proposito de Il mercante delle quattro stagioni di Rainer Werner Fassbinder (1972), «lo spettatore è al tempo stesso trascinato nel racconto e tuttavia costantemente allontanato da esso dalle stilizzazioni della sua narrazione». Lo stesso vale per Spencer, che alterna momenti di avvicinamento con inquadrature delicate e personali a momenti di allontanamento con un iper-spettacolo di sentimenti. Tuttavia questo melodramma, sostanzialmente rimosso dalla realtà, è più in linea con l’immagine di Diana, è più appropriato del ricamo satirico ed è un modo più eccitante di esporre le relazioni condensate tra l’apparato statale, il patriarcato e l’accumulazione di capitale che la narrazione rappresenta.

Per una parte della critica, apprezzare Spencer ha richiesto una sospensione del sentimento antimonarchico. Scrivendo su Jacobin, Eileen Jones raccomanda di «mettere da parte ogni desiderio di vedere la Casa dei Windsor affogare nel Tamigi e godersi davvero lo spettacolo». Sarà vero o dobbiamo accettare la tesi del film che vede Diana come una rivoluzionaria borghese? Al procedere del film, la borghesizzazione di Diana è sempre più evidente. Elencando le sue passioni «semplici e ordinarie» (l’amore per I miserabili, Il fantasma dell’Opera, il fast food), Diana si paragona alle vittime della battuta reale di caccia del giorno di Natale: «Vado a prendere il mio posto tra i fagiani». Nel suo articolo The Origins of the Present Crisis (Le origini della crisi attuale), pubblicato su New Left Review, Perry Anderson sostiene che, a differenza della Francia, l’Inghilterra non ha mai vissuto una piena rivoluzione borghese, con il risultato che la classe aristocratica si è aggrappata al potere e l’Inghilterra «non ha mai attraversato una fase veramente egualitaria e quindi non ha mai colpito le fondamenta ideologiche dell’aristocrazia». Condannando la società a un perpetuo declino, tutto affonda sotto il peso dell’egemonia dell’alta società autocompiaciuta: «Tradizionalismo ed empirismo si fondono d’ora in poi come un unico sistema legittimante: il tradizionalismo sancisce il presente derivandolo dal passato, l’empirismo incatena il futuro inchiodandolo al presente». Man mano che le allucinazioni di Diana si intensificano, la rivelazione onirica sostituisce la conoscenza esperienziale come modalità dominante del film, fornendo critiche sempre più esplosive sui Reali. Più e più volte, Spencer mette in evidenza l’avversione di Diana per l’aristocrazia: minando l’amore della famiglia per le cerimonie, la principessa dichiara ai figli che «qui c’è soltanto un tempo, non c’è futuro, il passato e il presente sono uguali». Diana, discendente di Carlo II e di Maria Stuart, dovrebbe essere dunque considerata un’incarnazione tardiva della rivoluzione del XVII secolo negata all’Inghilterra? Il costante e allucinatorio rifiuto dei valori sia empirici che tradizionali di Spencer ci spinge verso questo paradosso.

Collocando la storia di Diana all’interno di una struttura emergente di sentimento popolare repubblicano, il film si libera dai vincoli restrittivi della storia personale. Secondo Siegfried Kracauer, la biografia era la massima «forma d’arte neoborghese», una modalità di letteratura d’evasione che limitava la vita sociale all’interno di discorsi riduttivi sull’individualismo. Solo poche eccezioni riuscivano a rivelare «la vita dell’individuo storico […] non con l’intento di eludere la comprensione della nostra situazione; piuttosto […] con il solo scopo di rivelare tale situazione». Che tipo di biografia è Spencer? Nonostante la sua attenzione alla persona, il film è più interessato a tracciare le linee del conflitto politico e familiare che all’autenticità della storia di Diana Spencer. Temendo e celebrando al tempo stesso la limitazione biografica, Larraín modifica le convenzioni di genere, ironizzando sulle concezioni idealiste della storia attraverso scene che esplorano come l’intensità dei sentimenti possa apparire come profondità d’azione. Questa rappresentazione dei sentimenti come eventi storici trova perfetta espressione nelle scene in cui Diana immagina di essere perseguitata dal fantasma di Anna Bolena e successivamente di reincarnarsi in esso. Passando tra inquadrature e primi piani della regina giustiziata e della regina di cuori, seguiamo Diana mentre scende di corsa le antiche scale reali in abito Tudor e copricapo a timpano, ma nell’inquadratura successiva la vediamo di nuovo con stivali di gomma, cappotto caban e perle, una sloan ranger infusa nello spirito della storia.

L’articolo, tradotto per noi da Chiara Bertoldo, è stato pubblicato su Another Gaze e scritto da Georgie Carr. Potete trovare la versione originale qui.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/admin/" target="_self">Il Femminismo Tradotto</a>

Traduzione a cura di: Il Femminismo Tradotto

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