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Scioperiamo!

Storia dello sciopero del 1199B raccontato da Madeline Anderson

Le tue colleghe e i tuoi colleghi probabilmente non vorranno scioperare finché, in qualche modo, sciopereranno. Lo shibboleth del formare un sindacato sul posto di lavoro consiste nel portarlə a prendere quella decisione attraverso una conversazione semi preparata che «individui il loro problema», puntandoli con l’ardore goffo di un avvoltoio cieco. La strategia smentisce una logica fragile anche se pragmatica: non c’è un unico problema che ci accomuni, non c’è uno sfruttamento inequivocabile, nessuna oppressione dominante, piuttosto un grande groviglio di preoccupazioni individuali che si incastrano, si accumulano, convergono e si assottigliano in slogan vaghi sui cartelli dei picchetti. Per quanto concreto possa essere nelle nostre teste il funzionamento dello sfruttamento sul posto di lavoro, quando si tratta di parlarne, la capacità di argomentazione va a farsi benedire. Forse per spostare l’ago della bilancia non basta una conversazione politica ben ragionata.

Pizzicare le corde segrete della disponibilità di una persona semi sconosciuta è un modo per tentare di schierare corpi lungo i picchetti, anche se queste tattiche possono apparire futili nell’attuale clima politico Le operazioni intraprese, allo stesso modo da Ronald Reagan e Margaret Thatcher nel periodo di massimo splendore delle riforme neoliberiste, hanno plasmato la forza lavoro odierna facendole intorno terra bruciata e portando avanti politiche contro i sindacati. L’erosione sistematica e strategica del potere sindacale da parte delle loro amministrazioni è servita non solo a inibire la memoria culturale di un sindacalismo più forte- il numero totale di iscritti ai sindacati negli Stati Uniti raggiunse il picco nel 1979, due anni prima che Reagan entrasse in carica -ma anche a escludere i sindacati dalla vita politica.

A differenza del graduale approccio riformista alla destabilizzazione del potere sindacale dei suoi predecessori, Thatcher, durante il suo mandato, ha bruscamente depoliticizzato, limitato e indebolito i sindacati , limitati e indeboliti. Il suo governo approvò leggi che allentavano i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, permettendo il licenziamento o la sostituzione in caso di sciopero e limitando legalmente la solidarietà con la legge sull’occupazione del 1980; nel 1990 la situazione peggiorò ulteriormente con la criminalizzazione ufficiale dello sciopero e dell’azione di solidarietà.

La situazione non era meno difficile negli Stati Uniti degli anni ’80, con Reagan che creava pericolosi precedenti, facendo licenziare i controllori sindacalizzati del traffico aereo federale che scioperavano, introducendo tagli al Dipartimento per la sicurezza sul lavoro e l’amministrazione sanitaria (Occupational Safety and Health Administration) e con l’assunzione di manager all’interno del NLRB (agenzia federale volta a far rispettare i diritti sul posto di lavoro, con particolare attenzione ai contratti collettivi e alla concorrenza sleale) ne ha danneggiato il potere di contrattazione Gli effetti di queste riforme continuano fino al 2020 (NdT: l’articolo è stato scritto nel 2020, per cui i dati non sono aggiornati oltre): il totale delle persone iscritte ai sindacati negli Stati Uniti e nel Regno Unito ha raggiunto il minimo storico, con un aumento inverso nel numero di consulenti professionisti che fanno union-busting. In molti casi i sindacati non agiscono come organismi politici, ma come mediatori tra forza lavoro e management; si può affermare senza ombra di dubbio che le unioni sindacali abbiano perso il loro ascendente. È facile comprendere come mai le nostre colleghe e i nostri colleghi non ne vedano l’utilità.

Tenendo conto della natura sempre più precaria della forza lavoro – il numero delle persone non iscritte ai sindacati, deə lavoratorə temporaneə, freelancers, precarə cresce sempre più –, l’adesione sindacale e gli scioperi paiono essere diventati qualcosa di simile a un privilegio per la classe media; è stata questa l’interpretazione fornita, durante uno sciopero, da una disturbatrice di perle vestita, che ci ha invitatə a «tornare nel mondo reale». Questo tipo di atteggiamento è tipico dei circoli conservatori, e ha raggiunto il suo apice in risposta allo sciopero internazionale delle donne del 2017: chi, si domandavano con un’ossessione quasi thatcheriana, può permettersi di non lavorare per un giorno? Se commenti come questo rivelano una fragile fusione tra la tattica del trattenere il potere della forza lavoro e l’aplomb aristocratico, c’è un po’ di verità nell’idea che i sindacati avvantaggino alcune tipologie di lavoratori e lavoratrici.

In molti casi i sindacati non agiscono come organismi politici, ma come mediatori tra forza lavoro e management; si può affermare senza ombra di dubbio che le unioni sindacali abbiano perso il loro ascendente. È facile comprendere come mai le nostre colleghe e i nostri colleghi non ne vedano l’utilità.

Dopotutto, i sindacati non sono organizzazioni radicali: sono sia gerarchici che burocratizzati e la contrattazione può risultare un processo complesso da comprendere persino per i membri al suo interno. Storicamente, si può dire che abbiano avuto una natura esclusiva; non a caso, usare come capro espiatorio i lavoratori e le lavoratrici non sindacalizzatə, lə immigratə, coloro che erano costrettə a lavorare per un salario più basso, è stata una caratteristica duratura della retorica sindacale. Negli anni ’10 e ’20 del secolo scorso W.E.B Du Bois dettagliava questi problemi in una serie di articoli sul rapporto tra i lavoratori neri e i sindacati, la cui leadership e appartenenza erano esclusivamente bianche. «Nel movimento sindacale attuale», ha scritto, «rappresentato dalla Federazione americana del lavoro, non c’è assolutamente alcuna speranza di giustizia per un americano di discendenza nera». Infatti, lavoratori e lavoratrici nere, che si erano trasferiti a nord durante la Ricostruzione, non erano stati ben accolti: «L’atteggiamento del sindacato riflette quello del pubblico bianco», inoltre, è stato loro impedito continuamente l’accesso alla manodopera specializzata. Du Bois non solo ha sottolineato il razzismo istituzionale, ma ha anche contestato il loro potere politico limitato, sostenendo una posizione marxista che vedeva i sindacati come essenziali nell’organizzazione del proletariato, nel forgiare la solidarietà e, citando Engels, nel mostrare «bisogno di coesione», sebbene non si tratti di attori di per sé rivoluzionari, visto che l’articolazione stessa delle loro rivendicazioni (in termini di ore, salari, paghe, pensioni) scende a patti con il capitalismo.

Du Bois conservava ancora la flebile speranza che i sindacati potessero essere uno strumento di supporto alla lotta di classe in senso più ampio Se fossero riusciti a mettersi d’accordo e a impegnarsi a riunire la forza lavoro più forte possibile attraverso lo sviluppo di forti collettività e buona volontà, democratizzando la possibilità di affiliazione e includendo ə lavoratorə nerə, si potrebbe credere che una dimostrazione di solidarietà più forte potrebbe trasformarsi in qualcosa di più. «Un movimento di casta nazionale», scrisse congetturalmente, «Risalderebbe l’unione di questa potente collettività di uomini disperati, guidati dall’intelligenza e dalla proprietà, pieni di risentimento, armati del voto e determinati a combattere fino alla fine in alleanza con qualsiasi gruppo o elemento che prometteva successo».

L ’organizzazione sindacale, anche se con i suoi limiti, stimola un’estetica sociale radicale. Basta guardarsi intorno ed eccolo lì, un gruppo di persone che sono diventate un’«unità salda ». Thatcher sapeva quanto questo fosse pericoloso, avendolo visto con gli scioperi dei minatori degli anni ’70 e ’80, e quindi si assicurò che i lavoratori e le lavoratrici che sarebbero venutə dopo di lei non avrebbero vissuto abbastanza per sperimentare la solidarietà. Si tratta, invece, di qualcosa di cui abbiamo letto nei libri di storia; scrivendo sul movimento cartista degli anni ’40 dell’Ottocento, Marx osservò che c’era qualcosa riguardo la solidarietà che andava oltre facili interpretazioni: «Agli scioperi in un luogo fanno eco gli scioperi dei luoghi più remoti». A volte la solidarietà non ha bisogno di essere conquistata attraverso argomentazioni ragionate; a volte è opaca, misteriosa; semplice e sfuggente come l’acqua in movimento.

Gli inizi della carriera della regista e montatrice Madeline Anderson sono legati alla sua esperienza di sindacalista. Dopo aver lavorato in condizioni «terribili e di sfruttamento» nel cinema ei primi anni ’60, divenne la prima donna afroamericana a entrare a far parte del sindacato del montaggio cinematografico mentre lavorava a The Cool World (1963), un lungometraggio ibrido sui giovani disincantati di Harlem della regista d’avanguardia Shirley Clarke. Il suo ingresso nel sindacato fu una dura conquista: le fu permesso di entrare solo dopo aver minacciato di citare i membri in giudizio per averle impedito di aderire. Nello stesso anno Anderson assunse un incarico come editrice per la National Education Television (NET), prima che diventasse WNET. Fu la prima persona nera a lavorare per il Black Journal, destinato a diventare uno dei programmi televisivi pubblici incentrati sulla cultura e la politica afroamericana più longevi, in onda dal 1968 al 2008.

Nel 1968, Anderson fu contattata dal sindacato Drug, Hospital, and Health Care Employees Local 1199 di New York, che si occupava dei lavoratori e lavoratrici del settore farmaceutico, per chiederle se fosse interessata a documentare lo sciopero delle operatrici sanitarie afroamericane nella nuova filiale a Charleston, nel South Carolina. Anderson era la candidata perfetta per il lavoro: non solo faceva parte di un sindacato, ma aveva anche esperienza nella realizzazione di documentari su questioni contemporanee di diritti civili. Oltre al suo lavoro con il Black Journal, Anderson aveva anche realizzato Integration Report (1960), incentrato sugli inizi del movimento per i diritti civili, con uno sguardo rivolto in particolare verso l’Alabama, Brooklyn e Washington. Il film avrebbe dovuto far parte di una serie, ma Anderson ebbe notevoli difficoltà a trovare finanziamenti anche per la prima parte, tanto che l’icona del cinema vérité D.A. Pennebaker si trovò a dover manomettere un dispositivo di tracciamento in legno in fretta e furia per poter girare una scena.

Dietro i film di Anderson c’era un tempismo politico e strategico sia dal suo punto di vista che da quello della trasmissione pubblica. WNET, per esempio, desiderava utilizzare la programmazione e il «sollevamento» per prevenire le rivolte nelle comunità afroamericane all’indomani degli omicidi di Malcolm X e Martin Luther King. Subito dopo la morte di quest’ultimo avvenuta il 4 aprile 1968, scoppiarono disordini in centinaia di città americane; la guardia nazionale represse le manifestazioni con la forza, compiendo 27.000 arresti; una quarantina di persone persero la vita. Si diceva che la  «Settimana Santa», così intitolata ironicamente, fosse stata «la più grande ondata di disordini sociali dai tempi della Guerra civile». Anderson dichiarò di aver capitalizzato su questi isterismi nazionali per produrre un film con tutto il tempo e i soldi necessari.

Con I am  Somebody (1970) Anderson ha unito la sua esperienza nella televisione pubblica e la sua agenda politica, e ha tacitamente sostenuto un impulso estetico radicale che ha, a sua volta, Promosso, a sua volta, anche dal Black Arts Movement (BAM) più o meno nello stesso periodo. Citando Larry Neal, il BAM «era la sorella estetica e spirituale del concetto di Black Power». Sebbene sia stato riconosciuto che il BAM abbia avuto il merito di riunire artistə, attivistə e intellettuali per creare un’estetica radicale, e di aver fatto percepire il nazionalismo culturale nero come un mezzo per aumentare la consapevolezza  – esattamente come per l’ appello di Amiri Baraka alle «poesie che uccidono » – il lavoro di Anderson non è meno importante, poiché ha fatto luce sul modo in cui l’immagine in movimento e la programmazione pubblica giocavano un ruolo fondamentale. Infatti, durante il suo periodo alla WNET, veniva mandato in onda lo spettacolo di varietà SOUL!, in cui figure di spicco del BAM avrebbero fatto apparizioni pubbliche tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, prima che il programma venisse cancellato  nel 1973 per far posto a uno spettacolo integrazionista  «interrazziale», giustamente intitolato Interface.

In un periodo in cui tecnicə, montatorə e cineastə nerə stavano entrando nell’industria cinematografica in gran numero, e si sperava che la paura dei media di rivolte avrebbe catalizzato la sponsorizzazione statale della programmazione afroamericana, I Am Somebody riponeva fiducia nella coscienza: aumentare il potenziale dei media cinematografici. Il film ha raccontato la storia del Local 1199B a Charleston con filmati d’     archivio provenienti da cineteche, cinegiornali, film dell ufficio del turismo e materiale originale; Anderson ha abilmente unito i filmati trovati con interviste e scene di attività domestiche, ambientando la storia individuale della narratrice del film, la scioperante Claire Brown (che ha lavorato a stretto contatto con la regista in fase di post-produzione), con e contro il gruppo delle altre scioperanti. L’uso dell’audio delle interviste come voce neutra fuori campo serve a rafforzare questo aspetto, anche se a volte non sappiamo esattamente chi stiamo ascoltando, ma Anderson sembra suggerire che questo non abbia molta importanza.

In un periodo in cui tecnicə, montatorə e cineastə nerə stavano entrando nell’industria cinematografica in gran numero, e si sperava che la paura dei media di rivolte avrebbe catalizzato la sponsorizzazione statale della programmazione afroamericana, I Am Somebody riponeva fiducia nella coscienza: aumentare il potenziale dei media cinematografici.

I Am Somebody dura solo 30 minuti, ma riesce a catturare l’intero arco dello sciopero senza fare affidamento su una narrazione cronologica diretta. È improbabile che questo effetto sia ottenuto da un ritmo costante e uniforme; non a caso, ritratti lenti e sostenuti sono intervallati da scene di protesta, picchetti e arresti. Ma questo non vuol dire che Anderson permetta una facile risoluzione, o l’ordinata chiusura delle sue protagoniste in una teleologia dell’azione. Evitando quello che altrimenti sarebbe un comodo strumento narrativo per raccontare la sua storia – trattando gli scontri tra stato e attivistə come eventi sia cristallizzanti che propulsivi –, l’approccio equilibrato di Anderson al suo filmato consente al pubblico di comprendere lo sciopero delle lavoratrici del Local 1199B come parte di una lunga storia di tensione. La regista non sottolinea scene di disordini di massa con la scelta di tagli netti, zoom o rapidi cambi di prospettiva; forse con un disgusto femminista per le valorizzazioni a buon mercato dell’azione e del movimento, concede lo stesso potere, lo stesso peso, all’immobilità.

Ciò suggerisce che la violenza non è eccezionale o estranea, ma piuttosto incorporata e costitutiva della situazione stessa: il passato razzista che risuona nel presente razzista. Le inquadrature iniziali creano chiaramente risonanze, con la regista che radica le scioperanti nel loro ambiente geografico e storico. C’è una calma inquietante mentre vediamo un ponte sul porto immobile di Charleston, i tenui grigio-blu dell’acciaio, del cielo e dell’acqua che si fondono per dipingere un ritratto di una malinconia industriale (e stabilire il tono della tavolozza travolgente e acquosa del film). La vista si sposta a valle, verso la traversata pigra e il clacson smorzato di un traghetto turistico; a terra, i pigri cloppete, cloppete di un cavallo e di un calesse, che rimandano a un immaginario anacronistico e sudista. Questo è, sottolinea Anderson, un luogo intrappolato nella sua stessa storia.

La sequenza di apertura è narrata da Brown, che Anderson poi ci mostra  nella sua casa  mentre pulisce uno specchio, passando uno straccio sul proprio riflesso, poi prepara un caffè in cucina e si siede a mescolarlo. I suoi gesti rilassati suggeriscono che lo sciopero deve essere stato un successo. Nel frattempo, la sua voce fuori campo racconta come sono andate le cose: quando la facoltà di medicina ha licenziato 12 persone, 400 lavoratrici, tutte donne nere, hanno deciso di scioperare. «Dovevamo e basta», dice Brown.

La regia e il montaggio di Anderson fanno eco alla determinazione di Brown; la regista ci mostra le lavoratrici in sciopero, ancora con indosso le divise da infermiera, che camminano lentamente in cerchio sulla linea di picchetto. La telecamera centra nell’inquadratura i volti delle soggette intervistate, in piedi, immobili, a un braccio di distanza dal suo obiettivo. Parole selezionate, prese dai discorsi pubblici tenuti dalle leader dei diritti civili, vengono enfatizzate nel paesaggio sonoro di Anderson. I piedi di 14.000 persone passano davanti all’obiettivo, un flusso apparentemente infinito, ricoperto dall’audio granuloso delle manifestanti che applaudono e cantano l’inno dei diritti civili Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Round. Questa scena, in particolare, mi ricorda il commento di Gilles Deleuze secondo cui a volte «la grandezza dell’azione risiede meno nel modificare la situazione che nel sopravvivere in un ambiente indifferente».

 Tra le lunghe inquadrature delle sue protagoniste, Anderson, a volte, taglia scene di brutalità della polizia, con le scioperanti pacifiche colpite dai manganelli della polizia bianca, spinte a terra e trascinate nel retro dei furgoni. «Non volevamo scazzottate», proclama una delle voci fuori campo durante l’azione. (Il film è stato prodotto, secondo i titoli di testa, dalla American Foundation for Non-Violence). Lo sciopero voleva «combattere la polizia con la legge», lottare per il riconoscimento di diritti fondamentali, non solo come lavoratrici, ma come esseri umani. Tuttavia, si scontrano continuamente con la violenza di stato  – la polizia militarizzata viene chiamata a sedare i disordini di Charleston  – e il razzismo sanzionato burocraticamente dei politici locali. I contrasti sono spesso netti. In un’altra scena, le manifestanti entrano di notte in un camion della polizia bianco e dall’aspetto severo, vengono arrestate in massa, alzando cartelloni con il simbolo della pace e con il canto dà il titolo al film: «Io sono … qualcuno». E chi potrebbe negarlo?

Il canto delle lavoratrici funge da ironico contrasto con l’immaginario maschilista di alcune proteste sindacali dell’era dei diritti civili i cui slogan proclamavano: «Io sono un uomo». Invece, le donne in sciopero a Charleston hanno chiesto niente di meno che il collettivo, e paradossalmente individuale, bisogno di essere riconosciute come umane, come qualcuno, un qualcuno amorfo, quasi senza soggetto, ma comunque un corpo. La loro richiesta è nata dalla lotta per i diritti civili e dei lavoratori e delle lavoratrici – nelle parole di un altro dei loro canti, si trattava sia del potere sindacale che del potere dell’     anima. Lo slogan è un antidoto al modo in cui la lotta sindacale nei film ha scelto la classe operaia bianca come protagonista principale. La New Wave americana, della stessa epoca di Anderson, sposò notoriamente la venerazione per la controcultura con un fascino permissivo per la criminalità bianca dei colletti blu  (si pensi a Bonnie e Clyde, Easy Rider, Taxi Driver). Prende anche una linea diversa rispetto ai (relativamente pochi) film sul movimento per i diritti civili, che sembrano disaggregare l’idea stessa di solidarietà concentrandosi sull’eccezionalità della leadership ( Malcom X di Spike Lee o il Martin Luther King Jr. nel film quasi biografico Selma di Ava DuVernay).

Anderson ci ricorda che, per molto tempo, è stato compito di manager e politici tenere separate le due realtà. A metà film, si passa dalla protesta a un incontro con la stampa. Quando un giornalista chiede a un rappresentante dell’ ospedale della contea se lo sciopero del 11199B fosse legato alla lotta per i diritti civili, quest’uomo bianco, sudato e incravattato, risponde in modo evasivo. Non crede affatto che le due lotte siano collegate! «Lavorano per ricevere gli stipendi di lavori che non hanno alcuna relazione con razza, credo religioso, sesso o altro», afferma. Ovviamente, si tratta di questioni che sono sempre state profondamente intrecciate: i diritti civili con le rivendicazioni per il lavoro e per una retribuzione più equa, e i movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici nerə dell’era della ricostruzione (come sottolineato da Du Bois) con la federazione sindacale americana.

La regista ribalta il punto di vista ufficiale dell’ ospedale della contea mettendo in primo piano la duplice lotta per il lavoro e i diritti civili, in particolare in una scena commovente in cui Coretta Scott King, rimasta vedova da poco, parla a una sala gremita di scioperanti e ə loro concittadinə: un mare di uniformi bianche e cappelli blu. Mentre il Local 1199 di New York era il sindacato preferito di suo marito, il suo, dice, è il 1199B. Inquadrata dal basso, King, che indossa anche lei il bianco e uno dei cappellini distintivi del movimento, chiarisce il punto: la donna lavoratrice nera è forse la più discriminata tra le lavoratrici. La regia monta insieme inquadrature con le reazioni del pubblico: primi piani di volti illuminati da consapevolezza e ammirazione.

 Anderson ha ripetutamente dichiarato nelle interviste di sentirsi in grado di realizzare il film proprio perché riusciva a identificarsi con le soggette del suo studio, come, per l’appunto, con Coretta Scott King: lei era una di queste donne, erano sorelle. Quest’intimità filtra anche nel film, permettendo alla regista di osservare l’intreccio tra la vita domestica e quella professionale delle scioperanti. In uno dei momenti più toccanti del film, Brown spiega in un’ intervista a mezzo busto – non con voce fuori campo – che suo marito doveva fare la spesa e prendersi cura del figlio quando lei era ai picchetti. Sistemata contro le tende bianche, Brown fissa la telecamera mentre il marito siede imbarazzato e silenzioso, il loro bambino nel mezzo. «Molte volte si arrabbiava e dovevamo discutere», dice. La telecamera punta sul viso del marito mentre si gratta il sopracciglio, sorridendo a disagio.

Si assiste a un’inversione dei ruoli di genere e i confini tra lavoro professionale, sciopero e lavoro domestico. Quand’è che la donna lavora? Quando è al lavoro, quando è fuori a rifiutarsi di lavorare o quando svolge i lavori domestici? A complemento dell’ immagine iniziale di Brown nella sua cucina, Anderson mostra le donne intente a cucinare  nel quartier generale dello sciopero, dove stampano anche volantini. Brown ci dice che si sono divertite molto lì, anche quando mangiavano solo riso e fagioli. Allo stesso modo, nella ripresa di una delle manifestazioni, viene incluso il primo piano di una delle donne al picchetto che tiene in braccio un bambino addormentato. Un poliziotto non inquadrato dice loro di salire sull’ autobus, pare per arrestarle, ma poi cambia idea e urla al megafono: «Ehm, non vogliamo bambini su questo autobus » . La la teoria politica femminista degli anni ’ 70 aveva cercato di svelare le divisioni tra ciò che accade all’     interno e ciò che accade all’ esterno e tra pubblico e privato, Anderson, più o meno nello stesso modo,  suggerisce che il lavoro domestico si dissolva nel lavoro professionale, il lavoro professionale nello sciopero e lo sciopero nella casa. Per queste donne, il lavoro della dimensione socialmente riproduttiva  – cucinare, accudire, pulire –, lo sciopero e il lavoro professionale sono interconnessi: l ’oppressione è diffusa e non può essere contestata in un solo ambito. Come dice Brown verso la fine del film, questo sciopero non riguardava solo il confronto con l’ ospedale della contea, ma anche il confronto con l’     intera «struttura di potere di Charleston».

Gli scioperi dell’ era dei diritti civili spesso andavano oltre la contesa diretta tra lavoratorə e datore di lavoro. Nell’ultimo discorso di Martin Luther King Jr, che tenne il giorno prima di morire davanti a operatori e operatrici ecologiche di Memphis, affermò che il boicottaggio di massa sarebbe stato un’ aggiunta necessaria e anfibia allo sciopero. Sebbene corporalmente la sua fosse una politica di non violenza, economicamente King invocava «la ridistribuzione del dolore». Le sue parole e le sue strategie riecheggiarono a Charleston. All’ inizio del film, la voce fuori campo di Brown narra l ’arrivo del reverendo Abernathy della Southern Christian Leadership Conference (SCLC ): «Avevamo bisogno del reverendo Abernathy», racconta la donna, mentre il reverendo viene accolto a terra da un gruppo di uomini «per mobilitare la comunità nera a Charleston». A un raduno tenutosi quella sera in una grande chiesa battista, Abernathy sottolinea proprio questo punto: «O ci salveremo insieme come fratelli o periremo da sciocchi».

Per queste donne, il lavoro della dimensione socialmente riproduttiva  – cucinare, accudire, pulire –, lo sciopero e il lavoro professionale sono interconnessi: l ’oppressione è diffusa e non può essere contestata in un solo ambito. Come dice Brown verso la fine del film, questo sciopero non riguardava solo il confronto con l’ ospedale della contea, ma anche il confronto con l’     intera «struttura di potere di Charleston».

Lo sciopero non raggiunse l’efficacia sperata finché l’intera comunità non si fece carico del problema. Per Brown «sono stati gli studenti a fare di più per noi di chiunque altro». Nella sequenza di Anderson, proprio quando le cose sembravano fuori controllo, gli studenti e le studentesse incoraggiano un boicottaggio notturno delle attività gestite da commercianti bianchi del centro città, in solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero (potere dell’unione e potere dell’ anima) . Se il film di Anderson è stato prodotto dal quartier generale del 1199 a New York  – e la voce fuori campo di Brown riconosce il loro merito, sostenendo che «si sono davvero impegnatə per noi», cacciando i loro capi, e, alcuni dei loro membri hanno contribuito economicamente con oltre 100.000 dollari «di tasca propria» – allo stesso tempo, allude anche ai limiti del potere sindacale e alla necessità di mobilitarsi contro il capitale statale nelle sue forme ancora più diffuse. In un certo senso, lo sciopero ha avuto successo perché ha assunto alcune delle caratteristiche delle rivolte avvenute negli Stati Uniti quello stesso anno: la loro lotta non riguardava solo le lavoratrici e i lavoratori di per sé, in fin dei conti, concerneva più in generale l     ’interruzione della circolazione e del consumo     .

Nel tentativo di dare spazio alle contraddizioni inerenti all’ antagonismo tra datore di lavoro e impiegato, Anderson ricrea l’ accordo storico tra film documentario e lavoro di fabbrica  «tradizionale ». Dopotutto, la primissima immagine in movimento rappresentava proprio una fabbrica: i fratelli Lumière installarono una telecamera fuori dalla fabbrica di articoli fotografici di loro proprietà per filmare un flusso di lavoratori che se ne andavano alla fine della giornata. I 45 secondi di Lavoratori che lasciano la fabbrica (1895) condizionò notevolmente la produzione del secolo successivo; come afferma Harun Farocki, «la base per la cifra stilistica principale del cinema è stata data nella prima sequenza del film » . Il film doveva rispecchiare l’ ordine industriale sia nella forma che nel contenuto. I Am Somebody doveva essere un documentario sia in contrasto che in omaggio a quell’ impulso, doveva fungere da spazio rappresentativo che desse l’impulso a un movimento operaio centrato su razza e genere, che contravvenisse non solo alle aporie intrinseche nella storia del lavoro americano, ma offuscasse anche la santificazione documentaristica e originaria della classe lavoratrice bianca mescolando documenti «puri» con filmati di interviste, lasciando che fossero le donne a raccontare le proprie storie.

Dati i legami personali di Anderson con Shirley Clarke e Richard Leacock , il suo primo datore di lavoro nell’ industria cinematografica, nonché il momento storico, sarebbe opportuno allineare il documentario di matrice classica della regista con il cinema diretto americano. Come il suo contemporaneo Frederick Wiseman, che ha prodotto The Cool World e si sarebbe poi concentrato sulle istituzioni americane (scuole superiori, dipartimenti di polizia e ospedali psichiatrici), Anderson ha portato una prospettiva inaspettata e sperimentale nella programmazione per un vasto pubblico. Il suo lavoro ha anche una vicinanza tematica al movimento dei film documentaristi femministi degli anni ’ 70 incentrati sulla questione lavorativa  – alcuni degli esempi più noti includono Harlan County USA (Barbara Kopple, 1976) e Union Maids (Julia Reichert, Miles Mogulescu, Jim Klein, 1976). Ma se il documentario femminista e il cinema diretto hanno cercato, in vari modi, di sollevare il velo sull’intercessione della regia ed esporre l ’inveterata relazione tra macchina da presa e autorità, il compito di Anderson qui sembra essere qualcosa di piuttosto diverso. È meno preoccupata del proprio ruolo nella storia; la sala di montaggio, anziché la macchina da presa, si sostanzia come il vero luogo del conflitto.

In contrasto con il modo in cui il cinema vérité ha sottolineato la manipolazione della regia, la vocazione e l’ eredità di Anderson potrebbero essere viste come una problematizzazione del nostro rapporto con il montaggio. La sua prassi editoriale rivela l’espediente grazie al quale si mettono insieme i pezzi per raccontare una storia. I am Somebody presuppone l’ narrativo della vittoria, ma sfida anche la semplice successione cronologica, suggerendo che esistono altri modi di trasmettere il passato e relazionarsi a esso; Anderson, dal canto suo, gioca con il dramma di un ritmo omogeneo, o usa espressioni facciali, slogan e canzoni, piuttosto che dialoghi per immaginare la comunità lasciando che sia la situazione a usurpare il susseguirsi “progressivo” delle azioni. La rivisitazione altamente costruita dello sciopero sindacale del 1199B  – che evoca la nozione di  «immagine dialettica » di Walter Benjamin e l’idea che il montaggio può concepire un punto di vista radicale della storia come «interruttiva » – suggerisce che l’ avanzare faticoso del presente caratterizzato dal business as usual può essere rappresentato dalle rotture della collettività radicale, esponendo la contingenza dell’  ordine politico.

Queste tecniche vengono impiegate non solo in I Am Somebody, ma anche nel segmento di Anderson per Tribute to Malcolm X (1969) di WNET, un documentario di 14 minuti realizzato due anni dopo l’assassinio dell’attivista. Il documentario presenta filmati d’ archivio di interviste con Malcolm X intervallati dalle riprese di un’intervista originale di Anderson fatta alla con la sua vedova, Betty Shabazz, che, come Brown a Charleston, è raffigurata nella sua casa, seduta su un divano davanti a una tenda dai colori tenui. Qui viene in mente il lavoro molto successivo della Black Audio Film Collective (BAFC), un gruppo di  artistə nerə  britannicə  e della diaspora che iniziò a operare sotto il governo Thatcher. John Akomfrah, uno dei membri più importanti del collettivo, ha realizzato un film di 52 minuti in 16 mm (coprodotto da Channel 4) intitolato Seven Songs for Malcolm X (1993), utilizzando un mix di filmati d’archivio e interviste contemporanee con personaggi come Spike Lee, Robin Kelly, William Kunstler, Patricia Williams e, ancora, Betty Shabazz.

Il lavoro di Akomfrah è più diretto sulla politica presente in archivio; inventa i tableaux e fa appello alla rievocazione storica per sottolineare che l’ assassino di Malcolm X ha accorciato non solo una vita ma un immaginario radicale. Anderson tratta gli stessi temi. Come si può raccontare una storia con le immagini che si hanno a portata di mano? Come può il cinema ricordare, preservare e cancellare il passato? Entrambi insistono sul fatto che c’ è una politica coinvolta nella gestione degli artefatti del contemporaneo, tradendo la fiducia nella dialettica del materiale del film: bisogna lavorare con la sovrastruttura dell’ ordine sociale visivo per capovolgerlo o immaginarne la fine.

Il mio sindacato sciopererà di nuovo nelle prossime settimane contro i cambiamenti nel regime pensionistico, l’aumento dei carichi di lavoro e i tagli salariali; questa sarà, presumibilmente, la più grande azione di sciopero nella storia del settore dell’ istruzione superiore. Considerato che molti si recano ai picchetti per la terza volta in soli tre anni, sembra che lo sciopero sia diretto contro l’università tanto quanto contro lo stallo e la malafede che hanno caratterizzato lo stesso processo di contrattazione: leggi, governi, regolamenti, dirigenti e persino i sindacati che hanno costruito un sistema dedalico in cui anche chiedere cose semplici è difficile. I picchetti, insieme alla cancellazione delle lezioni, il rifiuto di valutare gli esami, assicureranno che la spina rimanga conficcata nel fianco del datore di lavoro, che ci sia un’interruzione in tutta l’università. Ma più semplicemente vogliamo mostrare agli altri che non ci arrendiamo.

Qualcosa di simile sembra essere in atto negli Stati Uniti. Il minimo storico delle iscrizioni ai sindacati è stato seguito da un massimo storico di scioperi nell’ istruzione, nel settore dell’ospitalità, nei ristoranti, e in ciò che resta dell’ industria automobilistica. Sembra che chiunque possa scioperare con (o perlomeno con  una parvenza di) protezione stia cogliendo l’ opportunità per farlo, ma rimane difficile spiegare come e perché sia cresciuto così a valanga e continui a prendere slancio. Di certo fattori economici ed elettorali hanno giocato un ruolo importante, insieme alle disuguaglianze globali sulle ricchezze che hanno raggiunto l’apice, senza contare le minacce senza precedenti di Trump nei confronti di lavoratori e lavoratrici di tutto il paese. Nel tentativo di spiegare questa inaspettata impennata nel 2018/19, la storica del lavoro e rappresentate sindacale Jane McAlevey fa eco all’ analisi di Marx sui cartisti: «Lavoratori e lavoratrici imparano a scioperare quando guardano altri lavoratori e lavoratrici scioperare e vincere. È questa la formula da mettere in scena in questo momento». Le motivazioni possono essere allo stesso tempo semplici ed enigmatiche.

Alcuni hanno paragonato questi movimenti alle mobilitazioni sindacali su larga scala degli anni ’ 70, dato che fu in mezzo a un capitalismo altrettanto robusto che i lavoratori si riversarono nei sindacati. Prima di trarre qualsiasi conclusione, dovremmo pensare alle differenze che minano le somiglianze. I sindacati anglo-americani sono diventati molto meno potenti. Come ha notato la stessa Anderson, lo sciopero di Charleston ha rappresentato la fine di un’ era: «Il lavoro ha perso il suo potere a causa dell’ opposizione ai sindacati e perché la generazione più giovane non comprende il potere che si crea quando lavoratori e lavoratrici sindacato». Data l’«opposizione ai sindacati» non solo generazionale ma anche governativa, è legalmente improbabile che si possa fare molto oltre entrare in un processo di contrattazione, più precisamente, non si può fare molto eccetto andare a votare perché qualcuno si occupi di negoziare per noi. In questo senso, il valore simbolico o estetico dell’ azione sindacale (descritta da Du Bois ed Engels) supera ormai quasi la sua funzione pratica.

La mancanza di un obiettivo raggiungibile e l’assenza di interessi garantiti dalla legge è stata profondamente sentita da me e dai miei compagni e compagne durante i picchetti nel 2018. Mentre ci organizzavamo e ci mobilitavamo (per conto dei nostri supervisori di ruolo e in pensione) contro il precariato e la mercificazione, la vera posta in gioco era comicamente riformista: una polemica sulla valorizzazione del regime pensionistico, regime negato a noi divenuti precari e ai precari. Il fatto che il linguaggio usato per guidare lavoratori e lavoratrici nel sindacato o ai picchetti non rappresenti della disputa reale non è necessariamente una colpa del sindacato stesso. Dobbiamo ringraziare Reagan, Thatcher e Trump per questo. Sapendo tutto  ciò, eravamo ansiosi di scioperare comunque, non solo per conto delle generazioni future, ma perché l’attrazione dell’     azione sindacale non risiede solo nella promessa di vittoria, ma nel buon senso che distingue dell’ azione di interruzione e della solidarietà.

La gente sciopera non solo per il salario ma anche per questa ineffabile dimensione socio-estetica. Nonostante la mia impressione che questo oggi potrebbe essere ancora più vero, considerato l indebolimento della capacità di negoziazione della nostra generazione, i sindacati non sembrano avere una forte volontà di potere rappresentativo. Certo, ci sono i social media, ma Twitter sembra essere più adatto a mettersi in mostra che all’     autocoscienza. (Non so se gli animali da picchetto siano mai stati così presenti in qualsiasi altra disputa.) A differenza, diciamo, del Local 1199 degli anni ’ 70, un fronte estetico coerente mancava in modo alquanto sospetto dai nostri strumenti organizzativi.

Questo non vuol dire che il sindacato non abbia più potere. Nel 2018 abbiamo vinto un’     importante controversia con la facoltà di storia di Cambridge, che si era rifiutata di pagare gli studenti laureati per l’insegnamento ai corsi triennali, secondo la premessa che tali doveri fanno parte del programma di formazione universitario. Oggi le cose sono cambiate e questo tipo di insegnamento è regolarmente retribuito. Un’altra grande vittoria recente proviene dal nostro gruppo di lavoro anti- precariato. L’università ha accettato, in linea di principio, di trasferire 500 insegnanti su retribuzione oraria a contratti di lavoro adeguati. Negli ultimi mesi sono state ottenute importanti vittorie in tutto il mondo sindacalizzato.    

Il film di Anderson lascia intendere che, senza attingere a più ampio immaginario politico, è raro che questi successi si verifichino, e attacca il capitale nella sua particolarità e diffusione e riportando corpi “dis-organizzati” e precari nell’ovile della solidarietà. Gli scioperi potrebbero dover diventare più generali e i sindacati dovranno essere pronti a diventare il più politici possibile, semplicemente perché altre persone li stanno osservando. Alla fine di I am Somebody, Brown, che indossa il suo berretto con il logo sindacale, si affaccia sul porto, i gabbiani  planano sulla superfice. «Se c’è una cosa che ho imparato», dice, «è stato che se sei pronta e disposta a combattere per te stessa, altre persone saranno pronte e disposte a combattere per te». La solidarietà, come l’acqua, riempie le crepe scorrendo veloce.

Potete trovare la versione originale dell’articolo pubblicata sulla rivista Another Gaze qui. L’autrice è Mimi Howard, ricercatrice dell’università di Cambridge che si occupa di femminismo e scienze sociali. Attualmente insegna al Zentrum Marc Bloch di Berlino.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/clarice/" target="_self">Clarice Santucci</a>

Traduzione a cura di: Clarice Santucci

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