ragazza, donna, altro scongiura il pericolo della narrazione unica
Intervista all’autrice Bernardine Evaristo vincitrice dell’International Booker Prize 2019
Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo, pubblicato in Italia nel 2020 da BigSur nella traduzione di Martina Testa, si inoltra nei meandri dell’identità attraverso le storie interconnesse di dodici donne nere inglesi, facendo un ritratto dell’Inghilterra contemporanea che esamina anche l’eredità della storia coloniale in Africa e nei Caraibi. Nonostante le donne nere non siano da considerare come un unicum a sé stante, è molto interessante notare l’intersezione fra la discriminazione di genere e le conseguenze del colonialismo nei paesi occidentali, in cui il colore della pelle detta ancora come le altre persone ti trattano.
In quanto donna afroamericana che ha letto molti autori e molte autrici inglesi, con Ragazza, donna, altro ho sentito per la prima volta un’affinità a loro e alle loro opere.
Non ci sorprende che questo libro abbia vinto il Booker Prize nel 2019, quel che ci sorprende, invece, è che Bernardine Evaristo sia stata la prima donna nera a ricevere questo premio. Professoressa di scrittura creativa alla Brunel University London, Evaristo ha scritto otto opere in cui si miscelano diversi generi e stili. La sua volontà di giocare con lo stile, la voce autoriale e il liricismo è evidente in Ragazza, donna, altro. La nostra è stata una conversazione alla “donna nera americana intervista donna nera inglese”. Abbiamo discusso del suo libro, cercando di inquadrarlo dal punto di vista delle lettrici afroamericane, parlando delle somiglianze e delle differenze fra vivere la nerezza in America e viverla in Inghilterra e, in particolare, della condizione delle donne nere e di come la letteratura le rappresenta.
Tyrese L. Coleman: Ho amato così tanto questo libro che non riuscivo a staccarmene. Quando ho detto a una signora bianca che ti avrei intervistata mi ha confessato di essere rimasta sorpresa dalla tua vittoria al Booker Prize. Eppure, quando ho letto Ragazza, donna, altro ho capito subito il motivo di quel premio. Un giornalista della BBC si è riferito a te usando l’espressione “un’altra autrice” mentre parlava del premio che hai vinto insieme a Margaret Atwood. Entrambi questi casi mi hanno spinta a chiedermi se hai notato una diversità di trattamento dovuta al genere e/o alla razza, sia nella critica che nella reazione alla tua vittoria. Se la risposta è sì, perché credi che questo avvenga?
Bernardine Evaristo: Sono felice che il libro ti sia piaciuto così tanto. Non ho avuto molte possibilità di conoscere il parere dei lettori e delle lettrici americanǝ, visto che qui il romanzo è uscito molto dopo. Non mi hai detto però se la signora in questione avesse letto o meno il libro, il che fa una grande differenza. La gente si fa già delle idee su chi vincerà il Booker Prize senza però aver letto tutti i libri finalisti. Oppure ne hanno letto uno e hanno deciso che è il loro preferito, senza sapere niente del concorso. Ho avuto delle risposte incredibilmente positive per Ragazza, donna, altro e da quando ho vinto il Booker, il romanzo se n’è andato in giro per il mondo finendo in mano a lettori e lettrici che di solito non leggono le mie opere, pur avendone sentito parlare. In Inghilterra il grosso del mercato editoriale è composto da donne di una certa età, ma da quando ho vinto il premio alle presentazioni sono venuti moltissimi uomini, spesso in là con gli anni, e qualcuno aveva già letto il libro rimanendone molto colpito. Penso sia incredibilmente rassicurante vedere come rispondano all’umanità che c’è nel mio lavoro e come abbiano incontrato le mie dodici donne nere inglesi e le abbiano trovate interessanti e forse addirittura ci abbiano trovato dei punti in comune, dei momenti di risonanza. Alla fine siamo tutti esseri umani con spinte emotive comuni.
TLC: Da americana amante della cultura inglese (nel senso che guardo molti show televisivi e film inglesi, in particolare sono ossessionata da The Crown) Ragazza, donna, altro mi è sembrato familiare. Non a causa di quello che penso voglia dire essere inglesi, ma piuttosto a causa di quello che so riguardo all’essere una donna nera. Sono stata attirata dai momenti “ci sono passata anche io sorella” che fanno parte della nostra condizione, come ad esempio la recita da signorina rispettabile che mette in scena Carole, quotidianamente circondata da persone bianche, per la maggior parte uomini, e lo sforzo di dover sempre essere la migliore solo per ottenere pari opportunità. Mi ci rivedo, poi sento altre donne nere dire “non siamo tutte uguali”, ma abbiamo comunque esperienze condivise. Che cosa speravi di trasmettere su questa storia comune?
BE: Come donne nere americane e inglesi condividiamo determinate esperienze in quanto viviamo in società razzializzate e patriarcali. Il mio romanzo esplora le storie di molte donne, di cui una non-binary, da diverse prospettive, incluse anche quella queer ed eterosessuale. Ci troviamo di fronte a diversità di classe, occupazione, contesto familiare e culturale, migrazione, ambiente urbano e rurale, fino ad arrivare alla prospettiva generazionale col racconto di una novantenne. Il mio scopo era quello di raccontare quante più storie possibili sulle donne nere inglesi per riuscire a contrastare la nostra invisibilità in letteratura, presentando i miei personaggi come esseri complessi, imperfetti e molto reali. Tutte queste aree si intersecano nel testo formando un reticolo, quindi nonostante il romanzo narri di storie individuali, ci sono moltissimi punti di congiunzione per chi legge, specialmente per le lettrici nere e per le lettrici di colore più in generale.
TLC: Quali sono le somiglianze e le differenze fra la nerezza americana e quella inglese e la condizione della donna nera in America e in Inghilterra, specialmente per quanto riguarda la loro rappresentazione in letteratura?
BE: Non mi ritengo un’esperta dell’argomento e odio le generalizzazioni, ma posso parlare in modo più ampio della differenza fra essere nerǝ in America ed esserlo in Inghilterra. Gli annali fanno risalire la storia dell’Inghilterra nera all’occupazione dell’Impero Romano, circa duemila anni fa (ne ho scritto nel mio romanzo del 2001 [ndT uscito in Italia nel 2005] La pupa dell’imperatore) e si intensifica molto nel sedicesimo secolo, ma qui non abbiamo discendenze nere ininterrotte dopo il dodicesimo secolo.
La maggior parte delle persone di colore arrivò in Inghilterra nel secondo dopoguerra, quindi la nostra storia è molto recente se paragonata ai quattro e più secoli di quella afroamericana. In questo Paese siamo anche una piccola minoranza in termini di razza: qui sono presenti circa 2 milioni di afrodiscendenti, mentre negli Stati Uniti sono circa 40 milioni. Questo si riflette nella letteratura: la nostra presenza era minoritaria e perlopiù dominata da autori maschi fino agli anni ‘90, con qualche rara comparsa di autrici nere. L’esempio più famoso è quello della scrittrice nigeriana Buchi Emecheta che è emigrata nel Regno Unito negli anni ‘60.
È solo in questi ultimi vent’anni che abbiamo visto aumentare la presenza delle donne nere nel panorama letterario inglese, ma certamente non abbastanza. Le scrittrici nere inglesi oggi si contano sulle dita di due mani, lo stesso non si può dire degli Stati Uniti. Negli anni ‘90 giovani scrittrici nere inglesi scrivevano di protagoniste altrettanto giovani nei loro romanzi di formazione. La maggior parte di quelle scrittrici è scomparsa: da allora abbiamo avuto poche protagoniste nere e giovani che vivessero in città e in epoca contemporanea. La produzione letteraria femminile afroamericana, da cui sono stata molto ispirata in passato, supera di gran lunga la nostra in termini di quantità. Uno dei miei obiettivi con Ragazza, donna, altro era di superare questi limiti. Penso che qualsiasi paragone più ampio con gli Stati Uniti richieda un lavoro di ricerca come una tesi di dottorato.
TLC: Nell’intervista che hai rilasciato al New York Times, hai parlato di com’è scrivere della diaspora africana. Ragazza, donna, altro è una raccolta di storie di donne i cui genitori o nonni sono emigrati o hanno lavorato in Inghilterra nel XIX e XX secolo. Dominique è l’unico personaggio di cui si dice esplicitamente che i suoi antenati erano schiavi e l’albero genealogico di Hattie include mercanti di schiavi, ma al di là di questo, quella parte della diaspora non viene esplorata granché.
Venendo da una prospettiva americana in cui gran parte della nostra letteratura ruota attorno al tema della schiavitù, persino quando si vogliono raccontare altri aspetti della diaspora, sono curiosa riguardo la tua decisione di non porre l’accento sull’impatto che ha avuto la schiavitù sulle persone nere inglesi; mi riferisco alla schiavitù in Inghilterra in quanto tale ma anche, più in generale, al mercato della schiavitù in cui erano coinvolti gli inglesi.
BE: Non capisco perché il mio romanzo dovrebbe parlare di più della schiavitù quando non è un’opera che si occupa così a fondo della storia inglese. E se c’è un aspetto della storia africana che continua ad essere trattato da tutti i media è proprio la tratta degli schiavi, al punto che questa espressione è diventata il sinonimo della nostra storia, anche se, come ho detto prima, la nostra storia va ben oltre questo. Il mio romanzo tratta di donne nere inglesi che vivono fra il XX e il XXI secolo, si addentra in qualche modo nelle loro origini ma l’accento sulla schiavitù è lieve, come dovrebbe essere. L’Inghilterra era uno degli attori principali nella tratta degli schiavi ma non ce n’erano molti che vivevano qui, perlopiù erano nelle Indie Occidentali. Alcune delle donne nel romanzo hanno origini caraibiche e altre hanno discendenze africane dirette. Molti, moltissimi scrittori continuano a esplorare la tematica della schiavitù e, per dirla tutta, il mio romanzo del 2008 Blonde Roots è tutto sulla schiavitù: si tratta di un capovolgimento satirico in cui furono gli africani a schiavizzare gli europei. È una messa in accusa del coinvolgimento dell’Inghilterra nella tratta degli schiavi. Il mio obiettivo con Ragazza, donna, altro era quello di esplorare tutte quelle aree delle nostre vite che invece passano inosservate.
Questo articolo è stato pubblicato su Electric Literature e potete leggere la versione originale qui. L’autrice dell’intervista è Tyrese L. Coleman, scrittrice e insegnante ha pubblicato diverse opere ancora inedite in Italia fra cui How to Sit finalista al Pen Open Book Award 2019. Collabora inoltre con diverse riviste letterarie fra cui Literary Hub, Black Warrior Review, The Rumpus, e Kenyon Review.