PARASITE: ESSERE GENTILI È FACILE QUANDO SI È RICCHI
Non c’è lieto fine nel capolavoro di Bong Joon-ho sul conflitto di classe

Parasite (2019) di Bong Joon-ho è una favola contemporanea delle disparità di classe raccontate attraverso l’avvicinamento di una famiglia ricca e una povera, in stile Su e giù per le scale (serie tv britannica degli anni ‘70, tra le prime a occuparsi della questione del conflitto tra classi). Secondo i comunicati stampa del film, Bong era interessato a partire da questa tematica per poter esaminare come si formano i rapporti sociali sotto il capitalismo e chiedersi se una coesistenza pacifica possa essere possibile al suo interno. (La risposta sembra essere un sonoro no). Solo recentemente tali quesiti hanno iniziato a essere accolti benevolmente dai membri della società civile, che fino a pochi anni fa si crogiolavano nel piacevole tepore del liberalismo del mercato contemporaneo, complimentandosi tra loro nelle sale riunioni della bellezza di una crescita economica senza fine e del vantaggio che tutti ne ricavano. Ora che questo mondo che non è mai veramente esistito sta cadendo a pezzi, Parasite ci offre una parabola del marciume che si trova nelle fondamenta di questa proverbiale casa. La strada su cui si incontrano queste due famiglie sudcoreane è quella del mercato delle ripetizioni, che ha permesso a molti millenial sottoccupati e senza nessun’altra abilità qualcosa di simile a un lavoro quasi stabile. Kim Ki-woo, un ventenne senza fissa dimora, coglie al volo l’offerta di insegnare inglese alla figlia adolescente del signor Park, un famoso imprenditore del settore delle nuove tecnologie. C’è qualcosa di vampiresco (parassitario) nel mondo del tutoring per le élite, che è passato dall’essere un rustico lavoro tappabuchi dopo la scuola a trasformarsi in un’industria globale da 96 milioni di dollari: voi giovani laureati sottopagati, affittateci i vostri cervelli e rivolgete le vostre speranze mai realizzate ai nostri ricchi figli, perché il vostro futuro è già morto.
Dopo aver risalito il vialetto in pendenza nella parte ricca della città, Ki-woo entra nella scintillante villa moderna dei Park, dove viene ribattezzato Kevin dai suoi datori di lavoro, consapevoli dell’importanza dello status sociale. I Park sono una coppia di giovani genitori, che mescolano il loro coreano con l’inglese e che menzionano con disinvoltura beni di consumo che hanno acquistato dagli Stati Uniti. Ki-woo sfrutta la propria posizione per collocare in casa Park il resto della sua famiglia (il padre Ki-taek, la madre Chung-sook e la sorella nichilista e caotica Ki-jung), risollevandoli dallo scantinato sotterraneo dove vivono, pieno di cimici e con una connessione wifi debole. Ki-jung diventa la nuova insegnante d’arte (o “psicologa dell’arte”), Ki-taek il nuovo autista e Chung-sook la nuova governante. Modellano con attenzione il loro passato per evitare che i datori di lavoro scoprano non solo che i loro dipendenti sono imparentati, ma anche la truffa che sta avvenendo a loro spese. Infatti, se si esclude Ki-taek, nessuno è veramente qualificato per il proprio ruolo. È Yeon-kyo ad accoglierli, la bellissima matriarca della famiglia Park che vive sotto una campana di vetro: aver trovato i propri impiegati attraverso le raccomandazioni di Ki-woo ha creato un “cerchio solidale”, come afferma lei allegramente.

Ambientato nell’eterea casa multipiano dei Park con i suoi corridoi a 90 gradi e segreti nascosti, Parasite rivela come il capitalismo ci rinchiuda in una comune degradazione dando per scontato che il peso dei sentimenti non possa essere condiviso equamente. I ricchi appaltano la fatica di affrontare le violente ineguaglianze, che stanno alla base delle loro vite, ai propri dipendenti. Questi ultimi messi di fronte alla scelta tra il venire pagati e sfruttati e il non essere sfruttati affatto, optano per la prima opzione. Non si tratta quindi di un “cerchio solidale”, ma piuttosto di una cannibalistica catena di interdipendenze che li porta alla reciproca distruzione. Perché i Kim possano farsi assumere, devono destituire la vecchia guardia: un giovane autista allegro e una fredda cameriera di mezza età con un terribile passato, che vengono deposti in una rappresentazione elegantemente coreografata della violenza intra-classe, mentre ciascun Kim usa la propria influenza (prima il figlio, poi la sorella e infine il padre) per “raccomandare” il membro della famiglia successivo e farlo entrare nell’ovile. Anche gli ignari Park hanno la loro catena di relazioni lavorative. Il signor Park delega il compito di supervisionare le “insignificanti” (femminili) questioni domestiche alla moglie. Per un uomo importante come lui venire coinvolto nei pettegolezzi della servitù è umiliante (è ironico che sia proprio la sua decisione di disinteressarsi a portare letteralmente alla sua umiliazione finale). Con lo svilupparsi della storia, le vite dei personaggi, ciascuno con i propri agi e le proprie nefandezze, sono sempre più legate le une alle altre. Anche se il capitalismo è visto come una dottrina di libertà individuale, residuo resistente della Guerra Fredda quando esisteva come opposizione all’Unione Sovietica, in questo sistema nessun individuo può avere successo o fallire da solo. Nonostante la meravigliosa fantasia liberale del “farsi da sé”, il capitalismo è reso possibile solo attraverso una catena di interdipendenze, molte delle quali sono violentemente oppressive e rigidamente gerarchiche. Alla fine, in questo sistema solo pochi sono in grado di realizzare i propri sogni.
Quando i Kim osano fantasticare sul proprio futuro le loro speranze vengono distrutte. Nell’epilogo del film Ki-taek, disonorato e sconvolto, si nasconde, le sue mani ricoperte di sangue. È celebre l’allegoria con cui Macbeth ha reso le mani macchiate di sangue il simbolo dell’incapacità individuale di spogliarsi dei propri crimini («Potranno mai gli oceani dominati da Nettuno/lavar via il sangue sulle mie mani?» ansima il nostro antieroe dopo aver ucciso il re), ma in Parasite, le mani sporche di sangue hanno un significato più comune e sociale. Non vediamo solo l’azione omicida, o la sua colpa, ma anche il peso insopportabile del dover dipendere da un’altra persona per il proprio sostentamento o miglioramento, e la lenta e bruciante pena di vivere in un mondo che con insistenza afferma che tu potresti essere molto di più di ciò che sei, ma che in fondo sottintende che ciò potrebbe accadere solo se fossi nato diverso. Chung-sook, riferendosi alla sua controparte Yeon-kyo, osserva che rimanere fisicamente indenni in questo mondo violento dipende da ciò che ci possiamo permettere: «Non è come dici tu, che anche se è ricca è molto gentile; è gentile perché è ricca. È così. Giuro che se avessi tanti soldi, anch’io sarei gentile!». Yeon-kyo è il volto dolce e gentile della famiglia ricca, un velo che copre la superbia del signor Park. Tuttavia, non siamo invitati a compiacerci della sua gentilezza quanto piuttosto a ridere della sua ingenuità, e a fare supposizioni su cosa questa giovane donna altolocata e ambiziosa stia cercando di nascondere dietro la propria generosità. Dopotutto, essere gentili è diverso dall’essere buoni. Per essere gentili non è necessario avere a cuore gli altri, la gentilezza ha più a che vedere con la considerazione che si ha di sé stessi. Il capitalismo, la casa multipiano in cui tutti viviamo, è impersonale e immorale. Non detesta l’umanità ma la vede come accidentale alla più ampia missione di spremere il profitto da ogni vita umana (e non). È quindi naturale che questa mediocre forma di sociopatia influenzi i propri sudditi, che non vengono premiati per la loro bontà nei confronti degli altri, ma solo in quanto discepoli fedeli della crescita del mercato. La gentilezza, quindi, può essere il risultato di un’inconscia accettazione di quel contratto sociale, che impone a qualcuno di soffrire affinché ci si possa beare della propria virtù. La malvagità qui non ha il volto di un antagonista crudele, si tratta piuttosto di un calcolo complicato nel quale qualcuno considera il proprio benessere più importante della libertà degli altri. Questo superficiale disinteresse verso le sofferenze altrui è rappresentato dalla debolezza ammessa dallo stesso Park: non può sopportare che i suoi dipendenti “superino il limite” dimenticando il proprio stato sociale.

Durante un’intervista a Londra, è stato chiesto a Bong della “zona grigia morale” che caratterizza i personaggi di Parasite. Ha risposto che sì, nel film nessuno è davvero cattivo o completamente buono, per dimostrare quanto sia complesso dover destreggiarsi a vivere in un mondo economicamente duro. Ma possiamo dire che sia la cosa più interessante che ha fatto? La studiosa di letteratura Alison Shonkwiler, nota per il proprio lavoro sul realismo letterario nel capitalismo contemporaneo, afferma che la crescente astrazione presente nelle forme più tarde del capitalismo invoca una modifica negli approcci tradizionali all’azione individuale, alla bontà e alla malvagità. Cosa significa dunque per la finzione minare le virtù e i crimini dell’individuo specifico, in un momento in cui ogni sfaccettatura della personalità è modellata da mercati immateriali che non si interessano affatto agli individui? Nella sua analisi del 2007 riguardo ai primi film di Bong, Gary Indiana scrive che il regista «dà poco spazio alla rappresentazione di sentimenti umani autentici». Indiana spiega che questa non è un’accusa nei confronti del regista, ma serve a rivelarne l’orientamento critico: «Le narrazioni di Bong registrano i momenti in cui la civiltà è in mutamento». Si tratta di una civiltà confusa, in cui la grande maggioranza viene abbandonata in lavori senza alcuna prospettiva (perlomeno coloro che sono fortunati), mentre la vita umana e il senso di comunità vengono limitati dalle istituzioni e dalle forze strutturali che ci alienano prima da noi stessi e poi gli uni dagli altri. In Occidente, il crescente sentimento anticapitalista continua a essere espresso in un mondo costruito dal liberalismo del dopoguerra, un’ideologia che celebra l’individuo capace di controllare i propri impulsi e di plasmare il mondo attraverso la forza delle proprie convinzioni, dibattiti ponderati e azioni ostinate. I tentativi di critica strutturale, quindi, vengono spesso filtrati attraverso le categorie individualiste di agenzia e complicità, e di conseguenza vengono attenuati: le narrazioni che ne risultano, puntando ai sentimenti, alla ricchezza interiore e al senso di colpa persistente che nasce dal far parte di questi sistemi, possono essere interessanti per noi, ma non sono strumenti utili da usare per affrontare il mondo. Il cinema di Bong non si limita a interrogare le buone o cattive intenzioni, liberandoci così dalla nostra fin troppo consapevole interiorità, ma punta a raccontare, in modo più triste e sincero, come l’individuo esista sullo sfondo della storia.
Dal suo debutto al Festival di Cannes nel 2019, dove ha vinto la Palma d’Oro, Parasite ha continuato a suscitare l’adorazione della critica. Il suo viaggio attraverso il circuito delle premiazioni americane ha inoltre offerto un’opportunità per riflettere sulle numerose frivolezze della cultura statunitense: il suo patologico campanilismo e l’avversione per i film sottotitolati; il suo impulso a porsi sempre al centro del mondo; e il suo desiderio di sfruttare fino a prosciugarla qualsiasi cosa abbia successo. Tuttavia, ha anche ricevuto il maggiore onore americano ottenendo l’Oscar come miglior film, il primo film straniero a vincere in questa categoria, e il supporto di ammiratori di alto profilo come Barack Obama, Elon Musk e Christine Teigen. C’è da chiedersi per quale ragione un film così palesemente dedicato a satirizzare sui ricchi viene al contempo elogiato proprio dalle persone e dalle istituzioni che prende di mira? Ci sono numerose risposte possibili: forse perché il coltello di Parasite non è diretto soltanto contro i ricchi; o forse è grazie al suo tono giocoso che non supera mai i limiti, esemplificato, secondo Kelley Dong dalla scena di sesso in pigiama, che permette una stilizzazione pop opposta alla rappresentazione più cruda di altre storie sulla lotta di classe. O forse si tratta del fatto che alla fine, dopo un climax violento e sanguinolento, non si immagina un mondo dove il capitalismo è stato sconfitto, ma piuttosto uno dove continua a mantenere la propria presa vampiresca sulla vita pubblica, condannando i protagonisti a cavarsela grazie a voli di fantasia emotivi che non si concretizzeranno mai sul serio.

Personalmente, continuo a tornare al profilo del Bong “figlio di Hollywood” sudcoreano scritto dalla critica Inkoo Kang, che lo descrive come un regista con una relazione complicata con i blockbuster americani, che sta sulla soglia di quel mondo leggendario e mitico senza mai farne parte del tutto. (In questo modo so di fare ciò che in precedenza ho deriso, ossia mettere costantemente l’America al centro di ogni cosa). Pur decorando i suoi film con orpelli di genere adrenalinici, Bong continua a mantenere una resistenza consapevole. Nei blockbuster americani di oggi, in special modo quelli Marvel e DC, vediamo principalmente attori-supereroi attraenti e molto ben pagati creare ed eseguire piani all’apparenza contorti, ma fondamentalmente semplici. Dopo una battaglia a colpi di animazione CGI contro il nemico di turno, il mondo viene salvato. A volte questi piani vengono sventati, ma le frustrazioni sono soprattutto temporanee e i personaggi sfrecciano verso l’ovvia conclusione. Nessuno va a vedere un blockbuster senza sperare in una gratificazione finale. O così pensiamo. La prima metà di Parasite è un’ode al piano ben eseguito. Lo schema dei Kim per usurpare i rivali si svolge in modo elegante in un universo chiuso pieno di ricchi significanti visuali: pesche fresche e lisce, ketchup rosso come il sangue spruzzato abilmente su tovaglioli spiegazzati e pietre dello studioso che sono, per dirla con Ki-woo, «così metaforiche». Poi, arriva il disastro. «Questo non era previsto,» sussurrano i Kim quando una serata a casa Park viene interrotta da un’ospite inaspettata. Nel momento in cui le cose si allontanano dal copione, il piano va in fumo velocemente. I Kim devono fare ricorso a ciò che non “fallisce mai”, come Ki-taek spiega al figlio durante una conversazione sconcertante:
Sai che tipo di piano non fallisce mai? Non aver mai alcun tipo di piano. Neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano la vita non va mai nel verso che vuoi tu. […] Se non hai un piano niente può andare storto, figlio mio. È così. Perché se poi qualcosa ti sfugge di mano, in fondo non è tanto grave. Se uccidi qualcuno, o tradisci il tuo paese, niente di tutto questo ha importanza.
La prima volta che ho visto questa scena mi sono emozionata. Alla mia terza visione però, con più distacco di fronte a questo intimo dramma familiare, ho anche sentito la solita voce metanarrativa che si insinua ogni qualvolta Ki-woo parla della natura metaforica della pietra dello studioso o della natura metaforica di mangiare alla mensa degli autisti, mentre pianifica il licenziamento dell’autista dei Park. I Kim, senza più alcun piano, vengono lasciati nelle grinfie di un altro piano: il grande disegno di Bong. Questo è uno schema pensato per solleticare il pubblico, per giocare con le sue emozioni, introducendo all’improvviso la commedia nella tragedia, la violenza nella liberazione e un finale speranzoso in una realtà miserabile. Accenna a un significato ma allo stesso tempo lo previene e lo offusca, ricordandoci che tutto è una metafora e che, nonostante la devastazione personale di Ki-taek, non si tratta della “vita vera”. I blockbuster hollywoodiani di oggi vengono spesso sovraccaricati di significati che non meritano nemmeno, costringendo il pubblico a convincersi a credere nell’importanza del messaggio o bilanciare scene di puro disastro con la redenzione emotiva. Parasite si rifiuta di offrire questo tipo di assoluzione, lasciandoci credere che esista un significato e allo stesso tempo che non esista affatto. «La chiave per trasformare il disastro in intrattenimento è la crescita morale,» ha osservato J. Hoberman, ma Parasite si rifiuta di attuare questo precetto e rincara la dose, relegando i propri personaggi in un girone più profondo dell’inferno. Il suo rifiuto di accettare il contratto sotteso ai blockbuster e adempiere al loro piano di salvezza del mondo (e del pubblico) offre una liberazione strana che vien ben accolta dagli spettatori, ricchi e poveri indifferentemente: Parasite ci porta in un abisso che è anche il nostro abisso, ma non promette la salvezza. Nonostante le elevate fantasie liberali, questo tipo di racconto genera empatia e di conseguenza solidarietà, che in ultima istanza porta al cambiamento, tuttavia la finzione non è una mappa per la salvezza. Quindi cosa possiamo fare? Di recente mi sono imbattuta in un vecchio saggio di Vivian Gornick su W.G. Sebald, di cui in particolare mi ha colpito questo passaggio:
Il mio istinto letterario mi dice che la sua voce, strana e straordinaria al contempo, è proprio quella di un saggista che si trova sul ciglio traballante di un universo tormentato dai fantasmi, mentre osserva in parte il vuoto sotto di sé e il silenzio di un mondo ora senza alcun movimento, e che scrive per trovare un modo per farne parte… Se quello che abbiamo ereditato è desolazione, allora è proprio quella desolazione che dobbiamo affrontare. Siamo qui, ci dice questo racconto, non per piangere i mondi perduti, ma per vedere le cose come stanno: per accogliere ciò che è. La consapevolezza è la nostra unica salvezza.
Gornick stava rispondendo a una domanda su quale sia compito della letteratura e della critica ai giorni nostri. Se abbiamo ereditato desolazione, allora è proprio quella desolazione che dobbiamo affrontare. Se la finzione non deve dunque mostrare quelle utopie salvifiche che ci piacerebbe vedere nella vita vera e i suoi personaggi non devono rappresentare dei surrogati che agiscono in nostra vece, sarà allora una vera coscienza critica a salvare il mondo? Questo richiederebbe che guardassimo a noi stessi, alle nostre relazioni e al terribile prezzo delle nostre vite, scantinati universali e metaforici, senza pietà o sentimentalismo. Pensare in modo metaforico non ci porterà forse alla salvezza, ma la consapevolezza che ne deriverebbe potrebbe farlo.
Questo articolo è stato scritto da Rebecca Liu per la rivista Another Gaze, potete trovare l’originale qui.