odiare la maternità
Partendo da La figlia oscura di Elena Ferrante, tutti i testi diabolici su madri snaturate che odiano fare la mamma
Nei primi anni Settanta, una donna si era trasferita nella mia comune a Brooklyn. Era più grande di noi, sulla trentina, ed era venuta dal Midwest dopo aver lasciato il marito. Se ne stava per conto suo, pensavamo stesse cercando di elaborare il divorzio. Poi una notte in cucina sì è confidata con alcune di noi. Aveva iniziato come tutte: un lavoro come si deve, un uomo, e, uno dopo l’altro, tre bambini. Poi è arrivato il femminismo: si è resa conto che stava soffocando. «Ho abbandonato i miei figli» ci ha detto quasi in un sussurro.
Avevo già deciso di non farmi una famiglia. Non pensavo di riuscire a gestire la scrittura, l’impegno politico, la vita erotica e dei bambini tutto in una volta. Una parte di me pensava che questa donna avrebbe dovuto pensarci prima a cosa voleva dire metter su famiglia, come avevo fatto io. Ma io ho avuto il vantaggio della gioventù: ho incontrato il femminismo da adolescente. Per questo motivo, un’altra parte di me la ammirava. Che coraggio deve esserci voluto per gettare via il peso patriarcale dell’angelo del focolare! Però, per lo più, ero scioccata. Certo, gli uomini abbandonano i propri figli frequentemente. Ma che genere di donna lo fa?
Molte delle protagoniste dei romanzi di Elena Ferrante sono quel genere di donna. «Nel mondo di Ferrante, le madri abbandonano regolarmente i propri figli, oppure li trascurano o se ne dimenticano perché sono occupate a scrivere e/o a seguire un amore; li amano e li odiano, li proteggono e se ne risentono, li guidano e li ostacolano in egual misura», scrive Jacqueline Rose in Mothers (2018). Una di queste madri, Leda, è la protagonista del romanzo del 2006 La figlia oscura, adattato nel 2021 per il cinema da Maggie Gyllenhaal. Mentre è in vacanza al mare in Grecia, Leda (interpretata con freddezza e vulnerabilità da Olivia Coleman) rimane incantata da una giovane madre molto bella, Nina (Dakota Johnson), che è impegnata in un gioco tenero con la figlia piccola. Questa intimità, allo stesso tempo ammaliante e claustrofobica, riporta Leda indietro di vent’anni, quando le continue richieste di attenzioni e di contatto da parte delle sue due figlie le impedivano qualsiasi tentativo di pensare, leggere o perfino masturbarsi. Leda lascia marito e prole per seguire una carriera accademica e una relazione amorosa; ritornerà dalla famiglia solo dopo tre anni. «I figli» dice Leda alla cognata incinta di Nina «sono una responsabilità schiacciante». Solo alla fine della storia confessa il suo crimine: «Sono una madre snaturata» dice, senza spiegazioni o scuse.
Non tuttǝ hanno amato La figlia oscura ma quasi tuttǝ concordano nel dire che il contenuto è scioccante e Gyllenhaal è stata coraggiosa ad adattarlo. La recensione di The Atlantic titolava: «Il film che comprende la vergogna segreta dell’essere madre».
Che cos’è questo segreto indecente? Jeanette Catsoulis risponde nel New York Times: «La nozione cruda e radicale che la maternità possa depredare il sé in modi irreparabili». Ferrante concorda: «il rischio che corre Leda mi sembra stia tutto in quella domanda» scrive in un saggio «posso io, donna di oggi, riuscire ad amare le mie figlie ed essere amata da loro senza dovermi sacrificare e quindi finire con l’odiare me stessa?» Potrebbe seguire un’altra domanda: può una donna come Leda scegliere sé stessa al posto delle proprie figlie e non essere odiata?
La figlia oscura è quello che Ann Snitow ha denominato, in un pezzo del 1992 su maternità e femminismo, un “testo diabolico”. Scritti da femministe bianche tra il 1963 e il 1974, questa manciata di libri erano più demonizzati che diabolici. La loro colpa? Immaginare che si potesse «rompere l’inesorabile legame tra mamma e figli» e che la vita di una donna potesse avere un valore anche senza bambini. Questi testi sono scomparsi velocemente così come sono comparsi, nonostante ciò, Snitow scrive: «è da allora che ci scusiamo».
Il primo “testo diabolico” era La mistica della femminilità di Betty Friedan del 1963. L’esegesi di Friedan sul «problema che non ha nome» – la frustrazione, la depressione e la rabbia di donne schiacciate in un lavoro di cura a tempo pieno – portò milioni di donne a una coscienza femminista.
Ne ha però anche demolite milioni: Friedan era lesbofobica. Come poteva mai una donna aspirare ad avere una carriera, si chiedeva, quando gli unici modelli che le vengono presentati sono «la vecchia zitella che insegna alle superiori, la bibliotecaria, la… dottoressa… che si taglia i capelli come un uomo?» Era schifosamente borghese. Per mancanza di figure da cui trarre ispirazione, scriveva, troppe giovani donne «si sono ritirate nel vuoto della beat generation».
Ma il fallimento più grave de La mistica della femminilità è stato la cancellazione delle persone che bell hooks ha denominato, nel 1984, «la maggioranza silenziosa» – le donne nere, razzializzate e povere «che più subiscono l’oppressione sessista e non hanno il potere di cambiare le loro condizioni di vita». Presumendo di descrivere la condizione universale della Donna, «il problema che non ha nome di Friedan in realtà si riferisce alla condizione di un selezionato gruppo di donne istruite, borghesi, bianche e sposate» che desiderano realizzarsi dal punto di vista lavorativo. Ma chi, si chiede hooks, penserà ai figli e alla casa una volta che queste donne si emanciperanno? La soluzione di Friedan al «problema» spesso si riduceva al «prendetevi una cameriera» – o più decorosamente «una donna delle pulizie». Ai tempi un terzo delle donne erano già parte della forza lavoro, fa notare hooks. Quanto si sentivano realizzate le tate, le operaie o le prostitute?
Friedan non riconosce il privilegio di cui godevano le donne a cui fa riferimento «all’interno di un sistema razzista, capitalista e sessista» scrive hooks. La sua denuncia, che comprende le prime pagine di Feminist Theory: from margin to center (1984) diventò una critica iconica non solo de La mistica della femminilità ma del tipo di femminismo bianco privilegiato che ha aiutato a far emergere.
«Il nuovo programma di vita per le donne» proposto da Friedan, che sostanzialmente si basava sull’accesso all’istruzione secondaria superiore e ai servizi di cura domestica, aveva l’obiettivo di spingere la mamma casalinga della periferia sul treno dei pendolari assieme agli uomini con le ventiquattrore. Ma questa visione è a favore della famiglia: moglie felice, vita felice. Friedan stessa era una madre felice e non aveva altro che buone parole per la maternità.
I testi diabolici che seguirono quello di Friedan erano molto più severi nel ritrarre la maternità, dipingendola come una sorta di malattia. Nella prima edizione di Noi e il nostro corpo (1970) del Boston Women’s Health Collective la gravidanza viene definita «una crisi esistenziale con enormi possibilità di crescita». Dopo il parto, scrivono «i cambiamenti fisici… sono enormi. Nonostante vengano considerati naturali assomigliano molto a qualche cosa di patologico». Germaine Greer nel suo libro di enorme successo, L’eunuco femmina (1970), diagnostica la famiglia come un organismo malato di cui la Madre rappresenta il “cuore senza battito”.
Il testo più famoso, e denigrato, della seconda ondata è La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica (1970) di Shulamith Firestone. Il libro mostrava una palese repulsione verso la gravidanza e il parto: «la gravidanza è barbarica… la deformazione temporanea del corpo dell’individuo per il beneficio della specie» sentenzia l’autrice. «Inoltre partorire è doloroso e non vi fa bene». Cita un’amica che ci è passata: partorire è un po’ «come cagare una zucca».
Per Firestone il legame madre-figlio è una catena: «il cuore dell’oppressione femminile risiede nei ruoli della maternità e dell’educazione della prole». La furia materna è inevitabile, sostiene, ma questa furia può essere fonte di zelo rivoluzionario. Spiega: «la madre che vuole uccidere i propri figli per quello che ha dovuto sacrificare (un desiderio comune) impara ad amare quella stessa creatura solo quando capisce che è impotente e oppressa tanto quanto lei ed è vittima dello stesso oppressore: allora il suo odio si dirige all’esterno e nasce l’amore materno».
Come può essere spezzato questo legame? Facciamola finita con la Natura! La fertilizzazione in vitro, la fecondazione assistita, e anche «la partenogenesi – il parto da vergine – possono essere sviluppati a breve» prediceva Firestone. Sì, la tecnologia riproduttiva, così come quella militare, potrebbe venire usata per rafforzare il potere patriarcale. Ma la rivoluzione femminista requisirà queste armi e le rivolgerà contro l’oppressore. Paragonato al testo riformista e bianco di Friedan, La dialettica dei sessi è un il pane e le rose cyborg, che canta la fine di ogni tipo di lavoro. «La doppia maledizione che vede l’uomo lavorare la terra col sudore della fronte e la donna partorire con dolore sarebbe spezzata grazie alla tecnologia. Per la prima volta vivere dignitosamente sarebbe una possibilità».
Eppure, nonostante Firestone e altre femministe stessero decostruendo l’ideologia del destino biologico, altre la stavano riproponendo per costruire un’utopica ginecocrazia. Nel 1974 la fuggiasca Jane Alpert membro della Weather Underground, un movimento militante di sinistra radicale, fece girare un suo articolo intitolato Mother Right: A New Feminist Theory. In questo testo dichiarava che «la capacità di dare alla luce i figli e nutrirli» non è semplicemente la radice dell’oppressione delle donne. È la base del loro potere, sia che decidano di riprodursi sia che non lo facciano. Quel legame madre-figlio che Firestone vorrebbe spezzare per liberare il potenziale dell’umanità è lo stesso che viene glorificato da Alpert come promessa di un futuro compassionevole. «Il paradigma di ogni relazione sociale è la relazione fra una madre sana e sicura e il suo bambino» scrive. Nel manifesto che avrebbe galvanizzato il femminismo natalista “culturale”, Alpert esortava «le Donne» a «venerare» la «Madre».
L’idealizzazione femminista del matriarcato era compatibile con i “valori famigliari” cristiani e patriarcali che avrebbero portato Ronald Reagan al potere nel 1980. Insieme avevano la forza per tenere il demone giù nel buco, infatti, di lì a poco sarebbe iniziata la ritrattazione post-femminista. Nessuna sembrava più pronta a pentirsi di Friedan. Nel 1981, nel suo libro La seconda fase Friedan condanna la “mistica della femminilità” che rigetta famiglia e maternità. Nel discorso che ha tenuto quell’anno nella sua università alle neolaureate, sollecitò le colleghe dottoresse dello Smith College a essere più carine con gli uomini.
Al giorno d’oggi i libri sulla maternità non mancano. Nella Paris Review del 2018, Lauren Elkin ha elogiato questa nuova “produzione” per «la serietà infallibile, l’ambizione, il modo in cui chiedono che l’esperienza della maternità in tutta la sua visceralità sia presa sul serio come letteratura». C’è qualcuno tra questi testi che può essere classificato come libro diabolico? Dopo averne ordinati alcuni, Amazon mi ha gentilmente offerto una carrellata di proposte agnostiche uscite di recente. Alcune guidano le lettrici sulla possibilità di scegliere o meno la maternità; altre, invece, propendono per non sceglierla affatto, come, ad esempio, No Kids: 40 Good Reasons Not to Have Children (2009), di Corinne Maier e I Can Barely Take Care of Myself: Tales from a Happy Life Without Kids (2013) di Jen Kirkman. Il sottotitolo di Childfree by Choice (2019) di Amy Blackstone mette in piazza il movimento che «ridefinisce la famiglia e crea una nuova era di indipendenza».
Un movimento? Un movimento implica che ci sia un’azione collettiva e la scelta di non avere figli non è né un’azione né collettiva. Esiste, tuttavia, una comunità che è perlopiù attiva nel mondo social: “Childfree” su Reddit o le pagine Facebook “I Regret Having Children” e “Lady- No Kids”, per citarne alcune.
Nei blog a tema maternità c’è aria di rivolta dai tempi del primo lockdown. Sotto il video virale delle madri di Boston che imprecano in un campo, la blogger “Scary Mommy” commenta che, anche se può sembrare divertente, ciò che rappresenta non lo è affatto: «Non siamo stanche, siamo sfinite. Non ci è rimasto più nulla da dare».
Se proviamo ad analizzare le decine di post presenti sui social, sembra che le mamme pentite siano alla ricerca di conforto, mentre le “senza figli” siano alla ricerca di una rissa. Il gruppo Facebook, “Dual Income No Kids/Single Income No Kids” vanta 13.800 membri e straborda di foto e meme su cosa ci si risparmia (vomito, casa nel caos più totale) e su cosa si guadagna (cocktail a bordo piscina, anello di diamanti). L’aggressività può sicuramente essere il tono predominante sui social, ma queste persone sembrano sfidare chi guarda da fuori a considerare sgradevole chi non ha figli.
Se c’è una giustificazione accettata per scegliere di non mettere al mondo creature è l’arte. L’arte, come il parto, è un qualcosa di produttivo: l’artista o la scrittrice senza figli non può essere tacciata di pigrizia. Allo stesso tempo, le artiste, o, parlando per me, le scrittrici, sono bravissime a non concludere nulla, il che non è una buona competenza per essere genitori. È questo il sottotesto dei saggi contenuti in Selfish, Shallow, and Self-Absorbed: Sixteen Writers on the Decision Not to Have Kids (2015); provateci voi a inventarvi qualcos’altro come hanno fatto sia le scrittrici e gli scrittori che hanno contribuito e sia l’editrice Meghan Daum. Non è un caso che la cura dei figli sia tuttora un lavoro che svolgono soprattutto le donne; delle sedici voci della raccolta, dodici sono femminili. Sigrid Nunez elenca le grandi scrittrici che non hanno avuto figli: Jane Austen, le sorelle Brontë, George Eliot, Virginia Woolf. Colette trascurava la figlia indesiderata mentre Doris Lessing lasciò i due figli in Africa per tornare a Londra a scrivere. Nunez cita Alice Munro, che “scacciava” la sua bambina di due anni «con una mano e batteva la macchina da scrivere con l’altra». Come Leda, Munro è triste: la figlia aveva compreso di essere «l’avversaria di ciò che era più importante per me».
Alcune scrittrici presenti nella raccolta, inclusa Michelle Huneven, hanno avuto un’infanzia traumatica, per cui non credono di poter essere delle buone madri. Laura Kipnis non le apprezza proprio, definendo le mamme: «una razza strana e non invidiabile: terrorizzate, ostacolate, amareggiate». Molte si danno da fare per essere le zie fighe o prevenire le accuse di odiare i bambini. «Non c’è dubbio che avrei amato i miei figli di un amore che non avrei potuto conoscere altrimenti» dichiara Daum. Vallo a dire agli oltre 44.000 membri di “I Regret Having My Children”.
Alcune si prendono la responsabilità di considerare le implicazioni sociali più ampie che la loro decisione comporta. Lionel Shriver è preoccupata per l’indolente tasso di natalità del nord del mondo, mentre “altrove”, riferendosi a Nigeria, Yemen e Cina, si riproducono come moscerini della frutta. Insomma, le millennial (presumibilmente bianche) si stanno sottraendo al loro dovere eugenetico. Shriver intervista Gabriella, che proviene da «generazioni di accademici, storici, diplomatici», “un’eredità genetica” – così la definisce Gabriella stessa – di pensatori e pensatrici, di attivistə, senza la quale crede che «il mondo sarà un posto più povero». Un’altra intervistata, Nora, ha dubbi simili sulla perdita dei suoi geni superiori ma, come Gabriella, non se ne cura più di tanto: «dedicare tutta la mia vita a diffondere la mia etnia è una grande richiesta», dice. Bleah.
Gli uomini presenti nella raccolta sono gli unici a scherzare liberamente: dopotutto, questo non è proprio il loro reparto. Geoff Dyer salta rapidamente dalla riverenza nei confronti dei pascià di sette anni del suo quartiere elegante a un allegro nichilismo esistenziale: «di tutti gli argomenti per avere figli, l’idea che dia un “significato” alla vita è quello a cui sono più ostile tra tutti. Il presupposto che la vita abbia bisogno di un significato o di uno scopo!» esclama. Tim Kreider descrive la genitorialità come «rumorosa e disseminata di giocattoli, macchiata di pipì e piena di urla stridule».
Tra i romanzi diabolici che leggo, la maggior parte include artiste o scrittrici che faticano a produrre qualcosa che non sia latte. All’inizio della sua non troppo romanzata autofiction I Love You But I’ve Chosen Darkness (2021), Claire Vaye Watkins ha un marito sano di mente con un lavoro retribuito, una bambina di pochi mesi e soffre di baby blues. Incapace «di provare sentimenti oltre a quelli messi in musica dalla Disney», ha smesso di scrivere o addirittura di preoccuparsi di scrivere. Figlia della povertà hipneck, termine che unisce le parole hippie e redneck, dell’High Desert californiano e del tipo che procurava le ragazzine a Charles Manson, Claire ha le sue ragioni per essere poco incline alla vita familiare. Quando un amico di un amico la esorta a scappare: «Non feticizzare il matrimonio e i bambini. Non soccombere all’inclinazione assiale della monogamia […] Viaggia! […] Anche la schifosa festa di San Patrizio a Las Vegas è meglio del miglior giorno a casa con un neonato» Claire non riesce a obiettare; lascia il maritino e la figlia, ripercorre le peregrinazioni dei suoi genitori, consuma quantità eroiche di sostanze tossiche e semina un carico di avena selvatica. Di tanto in tanto è solleticata dalla nostalgia per ciò che si è lasciata alle spalle, e resta incantata da sua figlia quando, alla fine, si incontrano di nuovo, ma non tornerà indietro nel bozzolo.
Anche The Shame (2020), il breve e astuto primo romanzo di Makenna Goodman, inizia con la fuga di una madre. Il personaggio principale, Alma, guida nel cuore della notte dalla sua fattoria nel Vermont fino a Williamsburg, nei pressi di Brooklyn. Suo marito insegna in un college vicino alla fattoria dove Alma si prende cura delle pecore, inscatola verdure, rattoppa pantaloni, ripara la stufa a legna e si occupa della famiglia. Fa la mamma attivamente, coscienziosamente, anche se, a suo avviso, non in modo eccellente, e con umore calante. «“Abbine cura”, mi ha detto una donna al mercato, sorridendo ai bambini. Cazzo se volevo darle un pugno in faccia».
Anche Alma, come la sua autrice, è una scrittrice inedita. Inizia una storia la cui narratrice è sé stessa, solo nella versione migliorata. Per il suo personaggio si ispira a una donna trovata su un sito a tema maternità: “Celeste” è una mamma single che fa la ceramista e conduce una vita esilarante e instagrammabile. Celeste va in viaggio a Bali, suona l’armonium, «ha mangiato vongole crude al sapore di mirtillo rosso e rafano al MOMA» e ancora: «La sua borsetta era un cubo di foglie di palma provenienti da Oaxaca». La storia muore ma Alma continua a seguire ossessivamente Celeste online. Finalmente parte alla volta di Williamsburg per incontrarla di persona e, quando succede, assiste al suo idolo che tira un croissant in faccia al suo bambino isterico.
The Shame parla, tra le altre cose, di ambizione, invidia, esaurimento e della difficile ed esilarante ricerca di una voce da scrittrice. Ma, come gli altri romanzi diabolici, riguarda principalmente i modi in cui la maternità può depredare o spaccare il sé. «La maternità mi aveva spezzata a metà. Il mio sé come madre e il mio sé come altro erano due persone diverse, distinte», scrive Watkins. «Qualcun’altra aveva scritto [i suoi libri] in stile Gli gnomi» Alma si lamenta: «Sono stata portata al limite quando dovevo fare la madre. Ho cercato di accedere alla mia individualità attraverso piccoli attacchi di scrittura, sogni ad occhi aperti e pittura. Il lavoro non va da nessuna parte; le faccende diventano “spaventose”, i bambini “parassitari” […] Non avevo più idea di chi fossi o di cosa mi piacesse fare». Solo quando il sé fantasticato si rivela falso – il celestiale scende sulla terra – Alma può diventare completa: artista e madre.
La metafora del sé scisso viene realizzata in altri due libri. Uno di questi è The Need (2019), il romanzo di Helen Phillips acclamato dalla critica. La protagonista, Molly, paleobotanica, madre di due bambini, Viv e Ben, è perseguitata da Moll, il fantasma incarnato della sua vita alternativa oscura. Moll desidera ardentemente i figli uccisi da un attentatore suicida; i figli che Molly ha e di cui si prende cura. Alla fine Molly assorbe Moll: la madre buona e la madre cattiva, “un’ombra”. Nella persecuzione della madre fortunata da parte della non-più-madre in lutto, si potrebbe vedere un’allusione velata alla Sethe di Toni Morrison, tra le più grandi madri tragiche della letteratura, tormentata dal fantasma dell’amato bambino che uccide per risparmargli le atrocità della schiavitù. Nightbitch, dall’omonimo romanzo del 2021 di Rachel Yoder, è un’artista concettuale che prova a non farsi consumare dalla maternità. Suo figlio «era il suo unico progetto. Aveva terminato il lavoro di creazione per eccellenza e ora non le era rimasto nulla», dice a sé stessa. «Tenerlo in vita, quello era l’unico gesto artistico che riusciva a compiere». Ma l’artista irrequieta e spietatamente desiderosa rifiuta di essere rimpiazzata dalla madre che dà compulsivamente. La ferocia trasforma la donna in cagna: Nightbitch. La metamorfosi ha inizio quando Nightbitch addestra suo figlio a comportarsi come un cucciolo che, pur non essendo mai andato a dormire senza spuntini e racconti infiniti, si sdraia felicemente in una cuccia. E quando, incapace di contenere i suoi istinti canini, Nightbitch uccide il gatto di famiglia, il bambino confuso suggerisce di mangiarlo.
Un aspetto impressionante di questo corpus di opere è la sua bianchezza. Le persone che hanno contribuito a Selfish sono abbastanza benestanti e quasi tutte bianche. Le coppie genitoriali bianche dei romanzi sono eterosessuali, sposate e appartengono alla classe media. Vivono in case di proprietà. Fatta eccezione per Molly, che dipende da zia Norma per il sostegno e la cura della prole, le famiglie sono nucleari: le mogli si prendono cura dei figli mentre i mariti, dietro le quinte, fanno carriera. Queste madri non risolvono i loro problemi organizzando asili nido comunitari o marciando per un salario minimo universale. Al più, chiedono che i padri contribuiscano.
L’accademica e femminista nera della Duke University, Jennifer C. Nash cita tutta questa bianchezza in un saggio del 2018 intitolato The Political Life of Black Motherhood. Il campo di studi sulla maternità, lanciato nel 1976 dalla pubblicazione del saggio nodale Of Woman Born di Adrienne Rich, è stato «fondamentalmente plasmato dal lavoro intellettuale e politico delle femministe nere», scrive Nash. L’autrice cita hooks, Dorothy Roberts – autrice dell’influente Killing the Black Body, del 1997 – la sociologa Patricia Hill Collins, la critica letteraria Hortense Spillers e la saggista e poeta Audre Lorde. Tuttavia, le autobiografie materne che pure sono proliferate dopo il libro di Rich, sono per la maggior parte di persone bianche. E non solo bianche, ma anche tendenti al diabolico; termine che Nash non usa. Il genere, dice la scrittrice, «si radica nella mappatura dell’ambivalenza materna bianca, nel trattare la maternità come uno spazio che toglie – forse addirittura ruba – alle donne».
Così come hooks, anche Collins connette questi problemi delle donne all’essere caucasiche. In Black Feminist Thoughts del 1990, Collins sostiene che le supposizioni sulla maternità – l’unità familiare privata, nucleare, la madre come unica persona che si prende cura di tuttə, mentre dipende economicamente da un uomo – storicamente abbiano alienato le donne afro-americane. Le radici nelle culture tribali africane e nelle famiglie disgregate nate nella schiavitù, così come le esigenze date da una condizione di continua povertà, sono origine dell’approccio collettivo adottato dalle comunità afroamericane nell’educazione dei figli. Una madre biologica si occupa dei figli dentro una rete di sostegno composta da zie, nonne, vicine di casa e altre madri, come anche da «parenti fittizie» che accolgono bambini resi orfani dalla vendita o dalla morte dei loro genitori in schiavitù, o a cui i genitori non possono badare a causa di indigenza, malattia o incarcerazione.
Collins sottolinea come «nelle unità parentali incentrate sulla donna… la centralità delle madri non si basa sull’incapacità dei padri», né sulla loro assenza. Eppure questa era l’accusa fatta da Daniel Patrick Moynihan nel suo report The Negro Family: The Case for National Action; un’accusa che continua nel welfare e nelle pratiche dei servizi sociali.
Le madri nere troppo potenti, e non le politiche suprematiste bianche, hanno prodotto un “groviglio di patologia” con conseguente violenza e disgregazione sociale, ha affermato Moynihan. «In sostanza, la comunità nera è stata costretta in una struttura matriarcale che, poiché è così fuori linea con il resto della società statunitense, ritarda seriamente il progresso del gruppo nel suo insieme e impone un peso schiacciante al maschio nero e, di conseguenza, anche a un gran numero di donne nere».
Snitow ha definito il volume come uno dei veri testi diabolici anti-madre degli anni ’60. Lo nominerei come contendente assoluto. Ma Moynihan non è stato né il primo né l’ultimo a caratterizzare la maternità nera come patologica. Dopo il suo rapporto sono arrivate la mitica “regina del welfare” e la depravata (e a sua volta mitica) “madre drogata”. Nel frattempo, in questi stessi decenni, un’immagine della madre nera stava emergendo dall’altra parte della maschera. Nei media, dalle sitcom televisive ai volantini del Black Power, era una madre-guerriera, vittima del trauma della vita afroamericana sotto la supremazia bianca, nonché sua iconica oppositrice.
Nash esplora un’altra immagine “ora dominante”, più lusinghiera ma ugualmente appiattita, della maternità nera. Ecco «un luogo di rinnovamento spirituale e psichico» e una pratica rivoluzionaria e trasgressiva, «che rovescia sempre le prevalenti norme eterosessiste, patriarcali, anti-nere e misogine». Su The Atlantic, Leah Wright Rigueur apre un pezzo con una scena di lei che ride fragorosamente alla nascita del suo terzo figlio, una Madonna della gioia nera (Black Joy). «La gioia celebrativa è sembrata particolarmente appropriata per l’occasione, data la realtà delle esperienze delle madri nere in America», scrive. Anche le femministe culturali bianche degli anni ’70 hanno attinto dalla cultura nera per progettare le loro utopie matriarcali. Hanno guardato, per esempio, alla narrativa speculativa di Octavia Butler, nei cui futuri le popolazioni sono di pelle scura e le madri, pur essendo feroci e irascibili (e a volte maschi), modellano il mondo.
Sarà che il testo diabolico è bianco perché le donne nere hanno preoccupazioni più serie del ciuccio sepolto nel sedile posteriore del SUV? Sarà che sono preoccupate da problemi di sopravvivenza, come i tassi sproporzionati di mortalità materna e infantile, il razzismo di fondo e la sorveglianza da parte degli assistenti sociali? Il risentimento materno, la rabbia e l’indifferenza sono problemi dei bianchi? Così come gli uomini nell’antologia Selfish, c’è almeno un romanziere maschio dominicano, naturalizzato statunitense, che distorce questa nozione. La madre del protagonista di un racconto di Junot Diaz si chiede perché una giovane donna del quartiere non abbia figli. «Forse non le piacciono i bambini», suggerisce lui. La madre risponde: «A nessuno piacciono i bambini… ma questo non significa che non li fai».
Nash concorda sul fatto che l’ambivalenza materna non sia una competenza esclusiva delle persone bianche. Si chiede perché le accademiche femministe nere «rifiutano fermamente di documentare la violenza della maternità separata dalla minaccia della violenza di stato». Non è interessata a soppiantare un’immagine dominante con un’altra, ma piuttosto desidera la complessità. «C’è spazio per l’infelicità materna nell’archivio teorico sulla maternità delle femministe nere, spazio per i racconti che non trovano la maternità per nulla radicale, anzi forse la trovano persino noiosa, estenuante o destabilizzante?». Dove sono le donne nere che hanno scelto di non avere figli, le madri nere in carriera, o quelle che si concentrano su di sé? Ritrarre la madre nera come rivoluzionaria aporetica non solo eclissa una vasta gamma di esperienze quotidiane, dice Nash, ma «sostiene una nozione singolare di soggettività femminile nera radicale: la maternità».
Un’eccezione in questo panorama è Alice Walker, una scrittrice-madre che ha lottato pubblicamente con la sua duplice identità. Ma proprio mentre Snitow guardava indietro ai testi diabolici degli anni ’60 e ’70 e non li trovava poi così diabolici, One Child of One’s Own di Walker, pubblicato su Ms. nel 1979, è ricordato come un trattato sull’ambivalenza materna. Invece, più che essere ambivalente verso la maternità, è un testo pieno di rabbia per ciò che Cherie Moraga riportò sui movimenti di giustizia sociale degli anni ’70: «Tutte le donne erano bianche, tutti i neri erano uomini». Walker è tenera nei confronti di quell’unica figlia, Rebecca; parla dei dolori della maternità, come la preoccupazione per le malattie della bambina, o per il razzismo che subirà, ma apprezza come quei dolori l’abbiano portata in mondi che altrimenti non avrebbe mai conosciuto. Il brano termina con una poesia che elenca gli ostacoli affrontati da diverse scrittrici – Woolf la pazzia, Austen la mancanza di una vita amorosa – e «Tu [Alice] hai Rebecca – più incantevole e meno tediosa delle calamità precedenti».
Forse non sorprende che la principale detrattrice di Alice Walker sia proprio Rebecca Walker. In un’intervista con la stazione radio NPR, la figlia ha descritto il pezzo su MS. come «estremamente ambivalente sulla maternità». Rebecca ha ricordato che Alice «ha parlato di come si dovrebbe avere soltanto un figlio o una figlia, perché averne di più vorrebbe dire esserne schiave e non poter più essere creative o libere, e si perderebbero l’indipendenza e la serenità». Non ha nemmeno dimenticato che la Mamma l’ha paragonata a una calamità. Rebecca ha ottenuto la sua vendetta; ha rinnegato Alice abbastanza pubblicamente. Eppure, la simmetria poetica non le sfugge. L’intervista con NPR ha segnato la pubblicazione dell’autobiografia di Rebecca, intitolate Baby Love: Choosing Motherhood after a Lifetime of Ambivalence.
Possiamo migliorare la maternità: la possiamo rendere meno gravosa e più egualitaria, possiamo smettere di criminalizzare le “cattive” madri e di mettere pressione a coloro che non vogliono figli affinché ne abbiano. Tuttavia, queste sono riforme graduali. Non risolveranno i problemi reali legati alla maternità che, come dimostrato dai testi diabolici, si adatta solamente ai tempi. Come il capitalismo, la maternità troverà sempre il modo di fottere le madri.
L’unica soluzione è quella di abolire le madri.
Questa, essenzialmente, è la visione di La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone, ma anche quella espressa in Full Surrogacy Now: Feminism Against Family (2019) di Sophie Lewis. Così come Firestone, Lewis non ha alcun interesse nelle riforme. Lei è un’utopista. Non vuole solo distruggere i legami irriducibili tra madri e figli ma anche l’interdipendenza tra madri e gestazione, gestazione e famiglia, famiglia e capitalismo, capitalismo e vita umana. Lewis scrive:
Immaginiamo un modo di plasmarci l’un l’altro in modo non competitivo. Stringiamoci in un caloroso abbraccio, facciamo saltare in aria le nozioni di consanguineità e moltiplichiamo le forme di solidarietà reali e amorevoli. Costruiamo una comune di cura basata sulla sorellanza, un mondo che si sostiene grazie all’amicizia e alla gentilezza, e non grazie ai legami di sangue. Per quanto riguarda la gravidanza, facciamo in modo che tuttǝ vi abbiano accesso. In breve, spodestiamo la “famiglia”.
Nel frattempo, Lewis ribatte che chi pratica un lavoro gestazionale – lə surrogato commerciali – devono avere i diritti e l’autonomia di tutti i lavoratori e le lavoratrici. Lo snodo centrale del libro è un’inchiesta giornalistica su una clinica indiana per la maternità surrogata, l’Akanksha Fertility Clinic, e sulla sua proprietaria la Dott.ssa Nayana Patel. Patel si dichiara una femminista e una salvatrice delle persone povere e oppresse, mentre in realtà guadagna la propria ricchezza e il proprio prestigio sociale sulle spalle di chi lavora a basso costo sotto stretta sorveglianza. Ma Full Surrogacy Now non è un libro di denuncia: le stesse testimonianze delle madri surrogate complicano la narrazione che vede in contrapposizione vittime e colpevoli. Piuttosto, Lewis usa la gestazione commerciale come una lente attraverso la quale interrogare i preconcetti relativi al genere, alla classe e ai sentimenti che riguardano la produzione “naturale” dei bambini e la formazione di una famiglia.
Lewis insiste che la gestazione – sia essa gratuita o commerciale, un lavoro d’amore, d’obbligo o di sostentamento – è pur sempre un lavoro. Chiamarlo così, tuttavia, non comporta che alla maternità surrogata venga conferita “dignità” tantomeno implica la richiesta di uno stipendio per la genitorialità. Piuttosto, posiziona la gestazione come un luogo di resistenza alla mercificazione di ogni cosa da parte del capitalismo: «Pensate se reimmaginassimo la gestazione, e non solo le sue conseguenze prevedibili, come un vero e proprio lavoro sottoposto alle logiche del capitalismo – cioè come qualcosa da combattere dentro e fuori di noi per giungere all’orizzonte utopistico, in cui saremo liberə dal lavoro e dal valore?»
Periodicamente, la stampa annuncia che l’utero artificiale si trova appena dietro l’angolo: nel 2022, uno scienziato ha comunicato alla BBC che ciò diverrà realtà entro due generazioni. In quel documentario, come in altri, le persone intervistate si crucciano sulle questioni etiche e democratiche, per poi rilassarsi solo quando si celebrano le meraviglie che attendono i bambini prematuri e le gioie per le persone prive di utero – rappresentate in questo video da un’affascinante coppia gay (nessun azionista estaticə nel campo delle biotecnologie è statə rappresentatə).
Firestone ha visto la macchina sforna bambini come il motore della rivoluzione, capace di ridefinire «la nostra relazione con la produzione e la riproduzione» e di portare alla fine delle classi sociali e della famiglia. Lewis sottolinea che non abbiamo nemmeno bisogno dell’incubatrice. «Dato che il perfezionamento delle tecniche della FIV ha permesso che un corpo possa sviluppare in gravidanza un materiale completamente estraneo,» scrive, «gli umani sono diventati un componente “tecnologico” asessuato, per i quali Procreazione Medicalmente Assistita diviene un eufemismo». Secondo Lewis, questa non è una motivazione per proibire la pratica, un obiettivo morale che si sono poste alcune femministe e attiviste per i diritti umani; la maternità surrogata, come l’aborto, continuerà che sia legale o meno:
Mentre tuttə gridano alla calamità e alla distopia, è molto importante sottolineare che con la maternità surrogata, così come in molti altri casi, plus ça change, plus c’est la même chose. Ma contestualmente, ci imbattiamo in questo aspetto ben più elettrizzante: quanto più l’approccio alla maternità surrogata non cambia, più le persone cercheranno di cambiarlo.
Le azioni volte ad apportare un mutamento finiranno per includere non solo la gestazione, ma tutto: la genitorialità, l’infanzia, la cura e la comunità.
L’offerta di Lewis di maternità surrogata totale e mutuo rinnovamento umano potrebbe essere una via d’uscita per le madri dei romanzi diabolici? Nella penultima parte di The Need, Molly cede riluttante alle suppliche di Moll di passare del tempo con i bambini. Presto, arriva a dipendere da questo surrogato di maternità – dopotutto a quale madre non ne servirebbe almeno uno? Le due donne organizzano un programma alternato: una si nasconde nello studio del marito nello scantinato, mentre l’altra si occupa dei bambini. Ma il senso di colpa e l’ansia di Molly la costringono a risalire furtivamente e infine a mostrarsi durante il turno di Moll. Una sera Molly e i bambini si ammalano e si addormentano febbricitanti. Quando esce dalla camera, li trova guariti e lavati, seduti alla tavola della cucina con Moll, «Ciao, altra Mamma,» dice Viv noncurante nel vedere la sua “vera” madre. Ben la nota a malapena. Più tardi, Molly e Moll diverranno una cosa sola, un individuo rinnovato e illuminato. Avrebbero potuto continuare a «plasmarsi a vicenda in modo non competitivo?» Una madre si è svegliata dal sonno della ragione e il suo mondo si è trasformato. Tuttavia, qui non ci sono mostri. Solo una donna e un paio di bambini in pigiama, che mangiano merendine.
Questo articolo è stato frutto di una traduzione collettiva della redazione del Femminismo Tradotto, le traduttrici sono: Consuelo Cannuscio, Erica Francia, Valentina Pesci e Clarice Santucci. L’articolo è stato scritto da Judith Levine e pubblicato originariamente su Boston Review in inglese qui la versione originale. Judith Levine ha scritto innumerevoli saggi che esplorano le tematiche di sessualità, giustizia e politica: in Italia potete trovare il suo libro Io non compro. Un anno senza acquisti: un’esperienza per riflettere sul potere del mercato.