nomadland: ampi orizzonti e vedute superficiali
Il film di Chloé Zhao vincitore agli Oscar si perde nella bellezza della fotografia e fatica a restituire la complessità dei personaggi.
Mentre scrivo questo articolo, le recensioni di Nomadland di Chloé Zhao, che ha debuttato al Toronto International Film Festival, si sprecano. La maggior parte sono critiche entusiaste che pongono l’accento sulla tenerezza e sull’umanità del film, in particolare sulla fedele interpretazione, pacata e schiva, di Frances McDormand. Il giorno dopo la première, Nomadland ha ricevuto il Leone D’Oro per miglior film al festival di Venezia e ha vinto il People’s Choice Award al festival di Toronto. Non ci deve sorprendere quindi che Nomadland abbia trionfato anche agli Oscar, d’altronde i festival del cinema autunnali fungono spesso da campo di prova per l’Academy, ma di fronte a tutto questo entusiasmo non posso che sentirmi un po’ delusa nel notare come il film racconti in modo superficiale la storia delle persone travolte dalla recessione. Nonostante anche io abbia un forte desiderio di partecipare all’entusiasmo per questo film che tratta delle difficoltà di una donna di ceto basso nell’America rurale, sono perseguitata dal timore che Nomadland venga elogiato, almeno in parte, più per il pensiero politico che rappresenta e la cruda bellezza degli scenari on the road piuttosto che per una scrittura profonda e originale.
All’inizio di Nomadland, l’intertitolo ci informa che «Il 31 gennaio 2011, in seguito al calo della domanda di cartongesso, la US Gypsum chiuse la sua fabbrica di Empire, Nevada, dopo 88 anni. Nel mese di luglio veniva dismesso il codice postale 89405 di Empire». Dopo poco, vediamo Fern, una vedova di mezza età e una ex supplente, chiudere la serranda di un magazzino e lasciare Empire, la città di minatori in cui lei e suo marito avevano un lavoro stabile, se non addirittura redditizio. La cinepresa la segue nel suo viaggio attraverso gli Stati Uniti occidentali alla ricerca di un lavoro stagionale nel suo van scassato. Lungo la strada, incontra una serie di personaggi un po’ tragici, ma con cui è sempre facile empatizzare, e grosso modo suoi coetanei che hanno risentito i terribili effetti della crisi finanziaria del 2008. Fern trova degli amici ma anche delle guide fra questi giovani non più giovani, sempre sulla strada, come Linda May che nel film interpreta sé stessa. Linda è una sua collega addetta al magazzino Amazon e le racconta di come una volta saputo di aver messo da parte solo 550 dollari di contributi dopo una vita intera di lavoro, abbia pensato al suicidio. Fern viene anche presa sotto l’ala di Swankie (interpretata da un altro membro della comunità nomade, Charlene Swankie) una saggia viaggiatrice che, dopo esserle stato diagnosticato un cancro al cervello, ha deciso di compiere un ultimo viaggio in Alaska per vedere le rondini. Dopo dieci minuti di film, è chiaro che questa non sarà una storia sul riscatto della classe proletaria americana, come in Erin Brokovich, ma piuttosto una cronaca di sollievi temporanei che prendono il posto della salvezza.
Fin da subito, Zhao preannuncia uno sguardo preciso e puntuale sulla rabbia del Midwest e sulle ricadute della recessione. Adattato dal reportage di Jessica Bruder Nomadland: un racconto d’inchiesta (uscito in Italia nel 2020), la storia di Fern ricade perfettamente nello schema narrativo del personaggio oppresso che ha sofferto per lungo tempo le ingiustizie del mondo. Ma mentre il reportage attinge al topos letterario sempre raccontando la verità, nonostante gli inevitabili artifici della memoria selettiva, delle descrizioni stilizzate, dell’editing e dei pregiudizi personali, un film così levigato che rappresenta degli individui in preda alle avversità della vita, fa sorgere ancor più domande sul suo scopo e sulla sua veridicità. Nonostante Nomadland non sia assolutamente obbligato ad affrontare le politiche predatorie di governo e multinazionali che hanno distrutto le città industriali del Midwest, le immagini di Zhao si crogiolano in una eau de tragedie che risulterebbe più d’impatto se si guardasse alle sue velenose radici, anche in senso letterale come nel caso dei siti di estrazione, e se i loro effetti fossero analizzati. Forse l’urgenza della situazione disperata di Fern e la precarietà della sua posizione sono più nitide nel libro di Bruder. Nel film, questi elementi sono presi in considerazione ma poi vengono in un qualche modo dissolti da una sequenza infinita di paesaggi e dalla cruda bellezza dei siti industriali. Questi panorami combinati con il fatto che Fern e i suoi compari sono tutti sempre di buon umore, positivi e rassicuranti finiscono col farci quasi dimenticare che si tratta di persone costrette a cercare stili di vita alternativi perché il governo li ha lasciati senza casa, senza assistenza sanitaria, senza qualsiasi forma di aiuto sociale e questo potrebbe, e forse dovrebbe, ispirare un certo rancore.
Assaggi di fastidio e malcontento si intravedono quando Fern visita il Rubber Tramp Rendezvous, o RTR come lo chiama Linda May, un punto d’incontro per nomadi a Quartzite, in Arizona.
Fern ci va per imparare qualche abilità pratica e per conoscere meglio la vita su ruote da una guida di nome Bob (anche lui interpretato da un vero nomade, Bob Wells), un uomo vecchio e barbuto, che si veste con vari strati di pile e un cappellino mimetico. Bob tiene comizi sul «giogo della tirannia del dollaro» e sugli esseri umani trattati come «cavalli da soma da gettar via». Il suo discorso rappresenta il commento politico più diretto del film, ma le sue parole non tirano in causa nessuno. L’esitazione a puntare il dito contro qualsiasi partito o istituzione potrebbe essere rivelatoria, presumibilmente la comunità ha sofferto sia sotto i democratici che i repubblicani e potrebbe aver perso le speranze, ma la presentazione relativamente apolitica della povertà resta comunque deludente. Anche la mancanza di contrasti all’interno del gruppo di Bob e la loro dinamica quasi utopica sembra un’evidente semplificazione. Per la maggior parte i personaggi, bonari e per lo più bianchi, sono ritratti come perfetti antieroi che cercano di sopravvivere all’interno di una società marcia. Viene da chiedersi se Zhao o i suoi produttori avessero timore di presentare i personaggi poveri come antipatici o pigri, o se ci fossero delle preoccupazioni su come la popolarità del film potesse risentirne se i personaggi avessero espresso opinioni critiche o impopolari.
Per un film che vuole parlare di persone al margine, in cui ci si aspetta di vederle alle prese con condizioni climatiche avverse, disoccupazione, mancanza di sostegno sanitario e sociale, guasti imprevisti ai mezzi di trasporto e forse addirittura ostracismo da parte dei familiari, le acque di Nomadland sono fastidiosamente piatte. È come se Zhao stesse facendo il tifo per la resilienza umana ignorando di proposito le parti oscure che si creano inevitabilmente in tutte le comunità: razzismo, sfruttamento, avarizia, violenza di genere, e altre forme di vulnerabilità e disperazione. Non è che Nomadland non sia triste, anzi è piuttosto deprimente, è semplicemente strano che i conflitti narrativi sembrino sempre causati più dalle dinamiche interpersonali che dalle circostanze esterne. Le persone che Fern incontra non sono sempre felici, ma c’è un senso di quiete e di accettazione della sofferenza come martirio che sembra in contrasto con la realtà di una vita sconvolta dalla perdita della propria casa e dall’abbandono da parte dello Stato. Mentre molti degli encomi per Nomadland sono veri, o quantomeno appropriati (McDormand è incredibile nell’interpretare i logori silenzi di Fern e i rari momenti di gioia con una certa gravità, inoltre il tema del film è più che mai attuale), i momenti più coinvolgenti arrivano dai rari bagliori di onesto conflitto e consolazione. Durante una cena imbarazzante a casa del cognato e della sorella imborghesita, quest’ultima dice: «Sai io credo che ehm quello che fanno i nomadi non sia molto diverso da quello che fecero i pionieri. Fern porta avanti una tradizione americana». Ma l’esperienza di Fern è estremamente diversa da quella dei pionieri, in quanto i nomadi post-recessione del film abitano un’America sviluppata e sovra sfruttata. Non esplorano il selvaggio West, ma piuttosto cercano di sopravvivere in spazi aggressivamente colonizzati dove le opportunità o sono esaurite o sono molto poche e distanti fra loro.
Il direttore del Toronto International Film Festival scrive: «Si entra e si esce da ogni scena con una rara nitidezza, andando al cuore di ogni momento con una crescente comprensione del personaggio». Le scene sono davvero brevi: una veloce e affascinante successione di istanti catturati dal viaggio di Fern. Talmente brevi che quasi si arriva a sperare di poter passare un po’ più tempo con la paura, il fastidio e la gioia della protagonista. Invece siamo spesso distratti dalle stucchevoli note di un pianoforte o dalle veloci inquadrature di orizzonti mozzafiato. Così, i momenti che mostrano una Fern deliziata dalla natura o dal ricordare la vita con suo marito, ci avvicinano a un personaggio le cui profondità rimangono insondate. Nel corso del film siamo in grado di comprendere la situazione in cui si trova, ma se si fosse stati più trasparenti riguardo le sue difficoltà e i suoi successi quotidiani compresi quelli degli altri personaggi, Nomadland sarebbe stato molto più realistico e coinvolgente. Zhao si sforza di puntare il riflettore su una protagonista che cerca di trovare nuove opportunità ma con opzioni limitate; tuttavia, enfatizzando la bellezza della resilienza di Fern e dei panorami che si scorgono dal suo cruscotto, la regista purtroppo non riesce a dare spazio né a un senso di profondità né all’inevitabile disordine del contesto.
Questo articolo è stato scritto da Esmé Hogeveen per la rivista Another Gaze, potete leggere l’originale inglese qui. Esmé è una scrittrice che vive a Toronto/Tkaronto, i suoi contributi sono comparsi sulle riviste Artforum, BOMB, Bookforum, The Baffler, Canadian Art, Frieze, e GARAGE, inoltre scrive regolarmente su Another Gaze. La potete seguire su Twitter oppure contattarla per mail all’indirizzo esmehogeveen@gmail.com