Nessuna rivoluzione femminista senza lotta di classe
Intervista ad Aurore Koechlin che si interroga su femminismo, marxismo e intersezionalità
Discutere di una questione cruciale ma spesso trascurata: la strategia. È questa l’ambizione che Aurore Koechlin porta avanti col suo libro La Révolution féministe (La rivoluzione femminista). Se per l’autrice risulta evidente che il femminismo riformista (che intende dialogare con le istituzioni statali e integrarsi all’interno dell’amministrazione pubblica, nonché beneficiare dei finanziamenti associativi) non permette la piena emancipazione femminile e la costruzione di una società più giusta, Koechlin non può fare a meno di considerare i vicoli ciechi di un’altra tendenza, inevitabile nel campo dell’emancipazione: la «strategia intersezionale». Pur sottolineando la necessità di comprendere le intersezioni fra le varie oppressioni, l’autrice contesta gli effetti politici concreti prodotti da ciò che lei considera come una deformazione di quello che propone, giustamente, l’intersezionalità come strumento sociologico. Effetti che Koechlin riassume così: la denuncia dei «privilegi» degli individui piuttosto che delle strutture di potere; il disinteresse per la costruzione di un grande movimento collettivo; la concentrazione elitista e purista sui codici ammessi, il linguaggio richiesto. L’opera intende quindi proporre una strategia di «natura rivoluzionaria», erede della critica marxista: la costruzione di un movimento femminista di massa in linea con i movimenti operai e antirazzisti che permetta la formazione di una forza popolare capace di superare il capitalismo e prendere il potere.
Nel 2019 un manifesto ha invocato un femminismo per il 99%. È d’accordo?
Sì, moltissimo. Condivido con le autrici il nocciolo delle analisi, sia teoriche che strategiche, sul femminismo. Si rifanno alla teoria della riproduzione sociale, secondo loro siamo nel pieno di una nuova ondata femminista e sostengono che da un punto di vista strategico bisogna che il femminismo si smarchi dal femminismo liberale e venga pensato in linea con la lotta di classe e le lotte antirazziste. La principale differenza tra noi consiste nel fatto che loro hanno scelto di dare priorità a un femminismo anticapitalista piuttosto che rivoluzionario – nel senso che si concentrano molto a identificare contro cosa si battono. Al contrario a me è sembrato importante evidenziare come per poter liberare le donne e tutte le minoranze di genere, sia necessaria una rivoluzione.
Che cosa intende esattamente col termine «rivoluzione»?
Questo termine ha conosciuto un doppio movimento negli ultimi anni da cui è stato estremamente danneggiato. Da una parte è stato demonizzato: la rivoluzione è fonte di paura, qualcosa di inerentemente violento, al contrario della democrazia. Dall’altra è stato svuotato di significato, specialmente a causa del marketing neoliberale (per vendere un prodotto lo si presenta come «rivoluzionario»). Tutto è rivoluzione, niente è rivoluzione, la parola in sé non ha più senso. Questi due movimenti hanno lo stesso scopo: seppellire collettivamente l’idea di un’alternativa alla società attuale. È per questo che mi sembra importante riappropriarci del termine e dargli un’altra connotazione – sottolineando, ad esempio, che se si fa un’analisi strutturale coerente con i rapporti di oppressione sociale, non si può che essere rivoluzionari. Se davvero esistono delle oppressioni in quanto esistono delle strutture che le sorreggono (lo stato, la Giustizia, la polizia, la famiglia, la scuola, il lavoro…), allora è necessario sovvertirle e pensarne di nuove per porre fine alle oppressioni.
La storia del femminismo è spesso divisa in diverse «ondate». Ma questa storiografia è stata contestata. In cosa questa metafora le sembra pertinente?
Capisco perfettamente che questa storiografia, semplificatrice, sia contestata da chi vuole mostrare come la storia del femminismo sia qualche cosa di ben più complesso che una mera successione di ondate. O come venga contestata da chi vuole sottolineare che questa storia tiene conto solo dei paesi occidentali e disdegna la storia delle lotte femministe al di fuori da questo contesto. Condivido queste critiche, ciò nonostante mi sembra che il concetto di ondate riesca a ottenere due cose importanti. Da un lato questa semplificazione permette una facile appropriazione. La storia dei femminismi è poco conosciuta, in gran parte perché è stata volontariamente invisibilizzata e dimenticata. Faccio parte di una generazione che è dovuta crescere riscoprendo quello che avevano fatto le femministe delle generazioni precedenti, con una formazione lunga e difficile. Le cose si stanno evolvendo con un dinamismo che fa ben sperare per la storia del femminismo, come testimonia per esempio la recente pubblicazione in Francia di Ne nous libérez pas, on s’en charge — Une histoire des féminismes de 1789 à nos jours (Non ci liberate, ci pensiamo noi – una storia dei femminismi dal 1789 ai nostri giorni) di Bibia Pavard, Florence Rochefort e Michelle Zancarini-Fournel.
Mi sembrava utile fornire un primo riferimento storico in tre ondate che permettesse di identificare facilmente dei periodi lunghi. L’altro vantaggio di questa nozione è che si tratta di una caratterizzazione militante. Bibia Pavard ha mostrato nel suo articolo Faire naître et mourir les vagues : comment s’écrit l’histoire des féminismes (Nascita e morte delle ondate: come si scrive la storia dei femminismi) che sono le nuove generazioni femministe a essersi ogni volta autoproclamate la nuova ondata, il che ha un effetto performativo: proclamare che si è in una nuova ondata contribuisce alla realizzazione della stessa. A questo proposito, mi sembrava interessante sottolineare che oggi stiamo assistendo alla quarta ondata femminista, in modo da prendere le misure della situazione e riflettere collettivamente ai compiti politici che questa implica. La particolarità di questa quarta ondata è che non nasce in Occidente, ma in America latina, il che ci permette di affrancarci dalle critiche mosse in precedenza. Sarebbe interessante rileggere queste sequenze con l’apporto delle ricerche storiche condotte sui femminismi non occidentali.
Franck Gaudichaud, professore di storia ispano-americana all’università di Tolosa, sosteneva che per comprendere i movimenti sociali in America latina bisogna comprendere l’importanza del movimento femminista. Oggi i femminismi latinoamericani sono quelli più capaci di unirsi al movimento operaio?
La questione di formare un fronte unito è molto complicata. Da un punto di vista storico, il movimento femminista come tale è nato in seno alle rivolte sociali. Ma la sua particolarità è sempre stata quella di trascendere la classe. Quindi, è stato ridotto da delle frazioni del movimento operaio e dai dirigenti stalinisti, a un movimento borghese o piccolo borghese. Questo ha scatenato una crisi duratura fra il movimento femminista e quello operaio a partire dagli anni ‘70, con l’emancipazione, almeno in parte, del movimento femminista da quello operaio. Anche se questa autonomia va relativizzata: le femministe marxiste fungevano allora da ponte fra i due movimenti. Oggi, una parte della sinistra radicale continua a negare la centralità politica del femminismo e si ricorda della sua forza solo quando riesce a mobilitare migliaia o addirittura milioni di persone. Questa parte della sinistra radicale ne contesta soprattutto la centralità a livello strategico: riconosce che esistono delle forme di oppressione specifiche che gravano sulle donne e sulle minoranze, ma non pensa che l’oppressione di genere sia consustanziale al capitalismo e nega che sia una forma di sfruttamento, cioè che sia un modo di appropriazione della forza lavoro. Si potrebbero dire le stesse cose sulla centralità politica dell’antirazzismo.
Ma certamente non si può ridurre tutto il movimento operaio a questa frazione della sinistra radicale. Credo invece che alla base dei movimenti ci sia una forte consapevolezza della necessità dell’intersezionalità delle lotte. E per quanto riguarda il femminismo, in parte questo viene realizzato nei fatti: molte lavoratrici in lotta creano un ponte fra queste diverse rivendicazioni, poiché il sessismo e/o il razzismo strutturano il loro sfruttamento lavorativo e perciò non ha senso separarli. Un buon esempio è lo sciopero delle addette ai piani dell’Hotel Ibis-Batignolles: loro legano a doppio filo il femminismo, la lotta antirazzista e quella per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Ma per tornare all’America latina, credo che la sua particolarità risieda nel fatto che il movimento femminista lì è molto forte, se non addirittura la forza sociale più forte in assoluto. Di conseguenza le femministe possono far convergere le lotte. In Francia credo che questa convergenza arriverà quando saremo riuscitǝ a costruire un movimento femminista forte e popolare, che farà da contrappeso al movimento operaio e farà da cassa di risonanza alle donne e alle minoranze di genere presenti nel movimento operaio.
In una prospettiva di dialogo fra marxismo e femminismo, lei mette in primo piano una teoria della riproduzione sociale finalizzata al ripensamento dei rapporti di produzione, di riproduzione e dei rapporti sociali. Perché secondo lei la teoria della riproduzione sociale è essenziale?
Questa teoria è nata grazie all’incontro della teoria marxista con quella femminista dai dibattiti degli anni ‘60 e ‘70 e si incentra sul tema del lavoro domestico. Dopo di che si è cristallizzata negli anni ‘80 attorno a un’opera di Lise Vogel Marxism and the oppression of women (Il marxismo e l’oppressione femminile) per poi conoscere un nuovo sbocco in questi ultimi anni in un contesto universitario ben specifico. Da un lato in effetti il marxismo ha visto riemergere l’interesse nel contesto della crisi economica del 2008. Dall’altro lato, la teoria femminista, favorita dalla nuova ondata, è particolarmente dinamica in questi ultimi anni. Per questi motivi bisogna capire l’importanza che ha assunto la teoria della riproduzione sociale che tenta di fornire un’analisi dell’oppressione delle donne e delle minoranze di genere nel quadro teorico del marxismo – il che implica, ovviamente, avere un rapporto flessibile con quest’ultimo. La teoria della riproduzione sociale mostra che se le donne e le minoranze di genere sono oppresse non è a causa di una semplice oppressione ideologica che sarebbe perdurata fino ad ora (una sorta di reminiscenza di tempi antichi). Mostra anche come questa oppressione non sia accessoria al capitalismo e come il capitalismo non avrebbe potuto essere indifferente al genere. Se questa oppressione esiste è perché ha una base materiale e quest’ultima è necessaria al capitalismo. Questa base materiale è l’assegnazione delle donne e delle minoranze di genere a un tipo di lavoro specifico basato sul genere: il lavoro riproduttivo. Il lavoro riproduttivo consiste nel produrre e riprodurre la vita, ovvero produrre lavoratori e lavoratrici nel quadro dell’economia capitalista. Detta con un più alto livello di astrazione e utilizzando le categorie marxiste, il lavoro riproduttivo è ciò che produce e riproduce la forza lavoro. Bisogna sottolineare che non si tratta di un lavoro centrato sulla biologia; al contrario, i compiti essenziali a questo tipo di attività non sono di tipo biologico. Anche quando il lavoro riproduttivo include dei processi biologici, questi sono marcati dal sigillo sociale, da cui il termine «riproduzione sociale».
Come si traduce nel concreto questo lavoro riproduttivo?
Su un doppio livello: prima sul livello quotidiano, consiste nell’effettuare tutti quei compiti necessari perché i lavoratori e le lavoratrici siano freschǝ e prontǝ a tornare al lavoro il giorno dopo. Ad esempio: preparazione dei pasti, pulizia della casa, fare il bucato ecc. Poi, a livello intergenerazionale consiste nel riprodurre la forza lavoro nel tempo: in particolare, attraverso la produzione e l’educazione dei figli. Uno dei luoghi principali in cui viene svolto il lavoro riproduttivo è la famiglia, che corrisponde quindi al lavoro domestico teorizzato dalle femministe degli anni ‘70. Ma l’interesse della teoria della riproduzione sociale sta nel mostrare che il lavoro riproduttivo può essere svolto anche in altri luoghi.
Quali, ad esempio?
Il lavoro riproduttivo può essere in parte collettivizzato tramite i servizi pubblici, in particolare nel campo di salute e istruzione. In questi ambiti la disparità di genere è evidente: sono infatti principalmente le donne e le minoranze di genere a occuparsene. Così come il lavoro riproduttivo non viene riconosciuto come lavoro, ma anzi è invisibilizzato all’interno del contesto famigliare, viene infatti presentato come il risultato di un’aspirazione «naturale», così viene svalutato anche sul piano sociale e viene remunerato molto poco all’interno dei servizi pubblici – nonché spesso non considerato come un vero e proprio lavoro. Il lavoro riproduttivo può anche essere integrato all’interno del mercato, principalmente attraverso i servizi alla persona. Qui notiamo come non si tratti più solo di disparità di genere ma anche razziale: infatti sono per lo più le donne razzializzate appartenenti alle classi popolari che se ne occupano. Questo permette di mostrare come le attrici principali della lotta femminista siano le donne razzializzate, che oggi si fanno sempre più carico del lavoro riproduttivo. Nel contesto capitalista, l’oppressione delle donne e delle minoranze di genere è ciò che permette indirettamente la produzione dei profitti. È quindi impossibile immaginare un capitalismo indifferente al genere e alla razza: tutto il suo funzionamento risiede sull’esistenza e sulla perpetrazione delle oppressioni sociali.
Secondo lei, il punto debole del femminismo «materialista» «risiede […] nella mancanza di elaborazione strategica» perciò lei inizia a tracciare la strada per una strategia rivoluzionaria e marxista: perché questo tipo di strategia sarebbe più efficace nell’ottenere dei risultati?
Per essere precisi, formulo l’ipotesi che una delle cause della rapida istituzionalizzazione del movimento femminista risieda nella mancanza di elaborazione strategica del femminismo materialista al di fuori del proprio movimento. Basti pensare a quello che diceva negli anni ‘70 Christine Delphy sul suo articolo L’ennemi principal (Il principale nemico) quando si parla di lotta rivoluzionaria «non vuol dire che sappiamo come procedere, né che sappiamo cosa bisogna distruggere per poter distruggere il patriarcato. Scoprirlo è parte integrante della lotta». Credo che sia in parte sintomatico del fatto che la lotta femminista bastava a sé stessa in un qualche modo, e che ci fosse una forma di rifiuto a elaborare una strategia concreta di sovversione del patriarcato. Ma probabilmente non lo scriverei più con queste parole oggi…
Perché?
Ho l’impressione che un punto insuperabile del capitalismo sia quello di cooptare i diversi movimenti di protesta. D’altro canto, sulla questione del dibattito tra femministe materialiste e femministe marxiste, mi sembra importante innanzitutto sottolineare quanto noi tutti e noi tutte siamo debitrici, in quanto femministe, alle elaborazioni teoriche estremamente ricche del femminismo materialista. Il disaccordo si pone innanzitutto sul piano politico. Christine Delphy in particolare ha difeso l’idea di un modo di produzione patriarcale autonomo e parallelo al modo di produzione capitalista, mentre io trovo più convincente il meccanismo di produzione e riproduzione proposto dalla teoria della riproduzione sociale. Sul piano strategico, Delphy è stata portata a sostenere una totale autonomia del movimento femminista dagli altri movimenti. Ecco questa mi sembra una falsità in quanto genere, razza e classe sono intrecciati: si producono e riproducono mutualmente. Falso e grave strategicamente. Dubito che qualsiasi movimento abbia il potere di rovesciare il capitalismo o il patriarcato da solo e di mettere in piedi una diversa organizzazione sociale senza mettere al centro la questione della produzione e della riproduzione, la questione di genere così come quella della classe e della razza.
Lei fa una lettura critica di quella che chiama «la strategia intersezionale», cioè di alcune appropriazioni della nozione di intersezionalità dagli ambienti militanti: il concetto del privilegio che cancella il problema del potere, l’individualizzazione dei rapporti di potere a discapito di un approccio strutturale, i safe space poco democratici, la ricerca della purezza individuale… è questa l’amara considerazione di una militante?
Questa riflessione parte in effetti da un’esperienza di militanza. Mi sembrava necessario fare un bilancio. Non tanto perché io porti qualche tipo di rancore, ma piuttosto perché stiamo assistendo a una rinascita del femminismo. Non dobbiamo aver paura di tirare le somme dai nostri errori passati per poter costruire un movimento femminista che sia il più vittorioso possibile. Tempo fa io stessa ero entrata dentro queste logiche: non si tratta tanto di una critica, quanto di una forma di autocritica. D’altronde ho l’impressione di non essere l’unica a fare questo bilancio: anzi siamo sempre di più a farlo. Il numero di collettivi femministi che si sono dissolti – è stato ad esempio il caso del mio vecchio collettivo – e delle persone che hanno smesso di fare militanza a causa di questi fenomeni ci deve spingere a una riflessione collettiva importante e a rimettere profondamente in discussione queste pratiche.
Alcunǝ sostengono che l’intersezionalità sia un quadro teorico e non una strategia. L’oggetto delle sue critiche sembra oscillare talvolta fra questo quadro teorico e la sua appropriazione strategica…
Sulla scia delle elaborazioni del black feminism, l’intersezionalità viene concettualizzata dalla giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw in due articoli fondatori del 1989 e del 1991. Sebbene sviluppi tutta una serie di riflessioni, possiamo dire che il fulcro del suo lavoro è quello di dimostrare che è impossibile isolare un’oppressione sociale da un’altra (specialmente quelle di genere, razza e classe): sono intrecciate fra di loro e si riconfigurano mutualmente. Il termine ha conosciuto un tale successo, sia dal punto di vista teorico sia di militanza, che se n’è appropriata in parte la sociologia di genere e serve innanzitutto a identificare un metodo: quello dell’incrocio delle oppressioni sociali. Sono quindi d’accordo nel dire che l’intersezionalità sia prima di tutto una teoria. Questo non ha impedito alcune appropriazioni da parte dei contesti militanti, quindi è necessario distinguere l’intersezionalità originaria, cosa che cerco di fare nel mio libro, forse senza troppo successo. Faccio notare che si tratta di una deformazione su scala individuale o interindividuale dell’analisi materialista, e talvolta marxista, del black feminism originale. Preciso sistematicamente che quando ne ho l’occasione ho nominato questa strategia «intersezionale» in mancanza di termini migliori per definirla… In un contesto in cui il governo cerca di demonizzare l’intersezionalità e di censurare la produzione teorica e militante sul tema, sono convinta che è necessario rivendicare il termine! Ma questo non ci deve impedire di avere uno sguardo critico su alcune sue appropriazioni fatte in contesti militanti.
«Dare la parola a chi è direttamente toccato dal tema» è ormai una parola d’ordine condivisa. Lei teme che possa avvenire uno scivolamento: quando si passa «da una teoria dei punti di vista coinvolti […] a una teoria del privilegio epistemologico assoluto degli oppressi e delle oppresse sulle loro oppressioni» cioè quando «ogni persona, se oppressa, detiene l’incontestabile verità della propria oppressione e quindi la chiave della sua liberazione». Ma quindi quale sarebbe un buon equilibrio?
Anche qui si tratta di una deformazione della teoria originale. Si passa dall’idea marxista che la posizione sociale determini il nostro modo di concepire il mondo (e che è dunque interessante, per analizzare l’oppressione, partire dall’esperienza di chi la vive e questo può, politicamente, rendere necessari dei momenti e delle organizzazioni separatiste) all’idea che solo coloro che vivono l’oppressione abbiano il diritto di parlarne. E che in forza di ciò debbano organizzarsi politicamente in modo assolutamente autonomo rispetto a chi quell’oppressione non la vive. Una volta che si adotta una prospettiva intersezionale, si vede che è difficile da sostenere: questo ha l’effetto di atomizzare le lotte e impedire qualsiasi convergenza. Al contrario, credo che sia importante sottolineare che solo una piccolissima parte della popolazione non subisce alcun tipo di oppressione ed è proprio questa parte di popolazione che ha il potere politico ed economico di determinare le vite di tuttǝ. Anche se ora non subiamo lo stesso tipo di oppressioni, anche se i nostri interessi possono essere diversi, abbiamo comunque un interesse materiale superiore a unirci per rovesciare le strutture attuali della società e creare un altro modo di vivere, di produrre, di riprodurre e di fare politica.
Considerata la scia teorica e politica in cui lei si situa, cosa pensa del fenomeno della riabilitazione delle streghe nel femminismo occidentale – con la parte «esoterica» che comporta?
La specificità della figura della strega è quella di essere una figura particolarmente plastica. Può essere rivendicata come un simbolo femminista in senso largo: la caccia alle streghe è un esempio storico di femminicidio di massa. O anche essere fatta propria da diverse correnti femministe che ne faranno ogni volta una lettura differente. È tipico dei simboli. La strega è stata rivendicata dai black block femministi, chiamati «Witch Block» durante le proteste per la riforma del lavoro in Francia. È il colore nero che viene associato loro e la sua connotazione femminista ad aver reso possibile questa appropriazione. A livello teorico, è una figura che ha analizzato Silvia Federici in Calibano e la strega in cui fa una lettura materialista dell’avvento del capitalismo come accumulazione primitiva del corpo delle donne. Anche Starhawk ha dedicato delle riflessioni a questa figura, rivendicandone l’esoterismo. Credo quindi che i significati che porta con sé la strega non siano statici e che sia un simbolo potente in grado di smuovere le masse che non dovremmo esitare a utilizzare.
Lei fa parte del Collectif féministes révolutionnaires creato nello slancio delle proteste contro la riforma del lavoro…
Abbiamo voluto creare uno spazio che fosse al contempo femminista e marxista. Un luogo di formazione, di dibattito e di lotta. Uno spazio generoso in cui ogni persona possa formarsi collettivamente, esprimere il proprio disaccordo e fare militanza. Certamente il fatto di definirsi rivoluzionari crea di fatto una delimitazione con l’insieme del movimento femminista. L’idea non era tanto quella di creare il collettivo più grande possibile, quanto quella di difendere in seno al movimento femminista una certa politica e una certa strategia. Per la mobilitazione, ci sembra più efficace sviluppare l’autogestione su scala locale e nazionale: attraverso i comitati di quartiere e sui luoghi di lavoro, per esempio, come è stato il caso per MLAC, l’associazione francese che lottava per il diritto all’aborto e alla contraccezione, durante gli anni ‘70. Il nostro scopo è quello di intervenire nel movimento femminista e nel movimento sociale in senso ampio, quindi sia nelle mobilitazioni nazionali che nel movimento antirazzista o in quello operaio, difendendo ogni volta la convergenza delle lotte. Militiamo attivamente in seno alla nuova ondata femminista: abbiamo partecipato alle assemblee generali MeToo nel 2017 e stiamo spingendo per la creazione di comitati locali per la preparazione dello sciopero femminista dell’8 marzo. Sosteniamo anche i diversi movimenti sociali e cerchiamo di farci entrare le rivendicazioni femministe. In occasione della mobilitazione dei ferrovieri contro l’eliminazione del loro statuto, per esempio, siamo intervenutǝ a sostegno del tecnocentro di Landy a Saint Denis; loro poi sono venutǝ a manifestare con noi al Pride. Più recentemente, abbiamo sostenuto lo sciopero delle addette ai piani dell’hotel Ibis-Batignolles di cui parliamo da più di un anno.
Ma alla fine dei conti: se il femminismo non è un blocco unico, come lei ha dimostrato, perché chiamare il suo libro La rivoluzione femminista?
Uso il termine «rivoluzione femminista» nello stesso modo in cui parlo di «movimento femminista» al singolare, sapendo molto bene che è attraversato da correnti opposte, che esistono diversi femminismi e che l’etichetta «femminista» può essere fatta propria per difendere cose che non hanno nulla a che vedere col femminismo! Delle volte è bene avere a disposizione dei termini più astratti, e quindi al singolare, che permettano di inglobare un insieme di spazi diversi. Il movimento femminista è, come il movimento operaio, un termine che permette di riprendere l’insieme dello spazio sociale femminista restando momentaneamente ciechi alla sua diversità consustanziale. La rivoluzione femminista è un periodo, quello che stiamo vivendo: l’innalzarsi della marea femminista da più di un secolo, su scala planetaria, che come uno tsunami minaccia di distruggere tutto col suo passaggio. Ma è anche una promessa. Quella che a un certo punto ci sarà una rivoluzione femminista. Ma spero di essere stata sufficientemente chiara sul fatto che, nel mio modo di vedere, se nessuna rivoluzione può dirsi tale se non è femminista, è anche vero che nessuna rivoluzione sarà femminista se non si pone come obiettivo quello di sovvertire il capitalismo, il sistema delle classi sociali e l’organizzazione razzista della società. Non si può definire rivoluzione femminista se non si stabilisce una riorganizzazione della produzione e della riproduzione.
Questo articolo è stato tradotto dalla rivista Ballast e potete leggere la versione originale in francese qui.