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narrare l’epidemia: covid-19 e hiv/aids a confronto

Il ruolo dell’etica protestante nella rappresentazione della pandemia negli Stati Uniti

Per le soggettività queer che hanno più di trent’anni c’è uno spettro che aleggia sulla pandemia di COVID-19.  Quale altra malattia minaccia le persone a noi care e sconvolge il nostro mondo? È dall’inizio degli anni ’80 che viviamo con lo spettro dell’HIV/AIDS. Infatti, sebbene l’HIV sia ora curabile e persino prevenibile per coloro che possono permettersi i farmaci, resta comunque una pandemia con quasi 38 milioni di persone che ad oggi convivono con il virus.

All’inizio della diffusione del COVID-19, i media facevano frequenti confronti con la pandemia di influenza del 1918 che infettò il 27% della popolazione mondiale e uccise 50-100 milioni di persone. Ma poiché è diventato chiaro che si tratta di un’epidemia molto diversa, è sorta una vera e propria fucina che continuava a sfornare articoli in cui si paragonava il COVID-19 all’AIDS. Alcuni  si sono concentrati principalmente sulle risonanze emotive, mentre la maggior parte ha preso la forma di elenchi contenenti preziose lezioni che possono essere trasposte dalla crisi dell’HIV/AIDS alle nostre circostanze attuali.

Sebbene ci siano molti paralleli culturali e politici tra HIV/AIDS e COVID-19, probabilmente c’è meno da imparare da questi paragoni di quanto molte persone credano. Quello che risulta evidente è che gli Stati Uniti non hanno imparato quasi nulla dall’HIV su come affrontare in modo diretto e trasparente una grave crisi sanitaria. Questa potrebbe essere un’osservazione utile, se ci spingesse finalmente ad affrontare il fatto che lǝ statunitensi non hanno mai avuto la concezione di salute pubblica , laddove per “salute pubblica” intendo la comprensione che la salute di ogni gruppo e persona dipende completamente dalla salute di tuttə. Questo non è un concetto nuovo: donne come Lillian Wald, una pioniera dei servizi sociali, coniarono il termine alla fine del diciannovesimo secolo mentre lavoravano come infermiere, assistenti sociali e attiviste nelle comunità di immigrati di New York. Avevano compreso che la salute dell’individuo dipendeva dalla loro comunità e da quella dell’individuo stesso. Purtroppo, più di un secolo dopo, non abbiamo ancora  imparato la lezione.

Sebbene ci siano molti paralleli culturali e politici tra HIV/AIDS e COVID-19, probabilmente c’è meno da imparare da questi paragoni di quanto molte persone credano. Quello che risulta evidente è che gli Stati Uniti non hanno imparato quasi nulla dall’HIV su come affrontare in modo diretto e trasparente una grave crisi sanitaria.

Lilian Wald e la sua cerchia di compagne immaginavano che la salute pubblica crescesse al di fuori della comunità. Al culmine della Gilded Age  (1870-1900), questo nuovo modo di concepire la salute costituiva una nuova teoria sociale, che potremmo oggi chiamare vita intenzionale. Si richiamava alle nozioni medievali di supporto localizzato e mutualistico , ed era relativamente facile da implementare in contesti di immigrazione;le persone di quelle comunità, infatti, spesso avevano ricordi della vita di villaggio o della vita negli Shtetl dove la salute personale e la salute della comunità erano interconnesse in maniera viscerale. Questa visione della salute pubblica, tuttavia, non ha mai realmente guadagnato una spinta istituzionale nella politica e nella cultura statunitense. 

Per Lilian Wald e altre infermiere è stato bello prendersi cura delle persone nei ghetti di New York, per evitare, ad esempio, che le malattie si diffondessero nelle parti più ricche della città, ma gli sforzi per una più ampia adozione del concetto hanno dovuto affrontare una serie di ostacoli; non ultimo, il termine “pubblico”. Dal latino publicus, “per il popolo”, la parola negli Stati Uniti è stata a lungo associata con le classi inferiori, con il prosciugamento delle casse pubbliche e persino – che Dio ce ne scampi – con il socialismo: basti considerare le implicazioni sociali e di classe di frasi come “case popolari”, “assistenza pubblica”, “trasporto pubblico”, o anche “opzione pubblica” di Obama.

Le tradizioni statunitensi dell’individualismo, della concorrenza e del capitalismo, ovvero di ciò che Max Weber ha identificato come l’etica protestante, elogiano tutte una struttura sociale gerarchica in cui “il pubblico” è ben al di sotto di coloro che ce l’hanno fatta da soli. Come ha osservato il giudice capo della Corte Suprema Earl Warren: «Molte persone considerano le cose che il governo fa per loro come progresso sociale, ma considerano le cose che il governo fa per gli altri come socialismo».

Le conseguenze della negazione di una visione di ampio respiro della salute pubblica sono evidenti: mancanza  di assistenza sanitaria universale; scarso controllo federale o statale sui prezzi dei farmaci; rifiuto di affrontare l’emergenza legata all’uso incontrollato delle armi; resistenza a una discussione seria sulle patologie ambientali; mancanza di  un’educazione sessuale completa e scientificamente fondata e mancanza di accesso alle risorse per la salute sessuale; rifiuto di consentire i programmi di scambio di aghi e siringhe, nonostante abbiano dimostrato la loro efficacia. Alcune di queste prese di posizione si basano su presunti principi religiosi, anche se i precedenti biblici a riguardo sono vaghi. Altri si basano su pregiudizi sociali e sulla convinzione che il profitto aziendale sia più importante di un’assistenza sanitaria completa. Non sorprende quindi che molte persone, e in particolare il governo federale, siano quasi incapaci di concepire e attuare una qualsivoglia minima risposta alle emergenze. 

La situazione è stata ulteriormente aggravata da decenni di battaglie portate avanti dalla destra per tagliare i fondi, nascondere e screditare la ricerca scientifica a supporto della salute pubblica. Le conseguenze di questa propaganda sono state la diffusione di pregiudizi sociali, ipotesi sconsiderate, teorie della cospirazione e superstizione. Questa potrebbe essere una delle risonanze più sorprendenti tra l’epidemia di HIV/AIDS e il COVID-19. I primi casi di quello che sarebbe diventato noto come HIV furono segnalati nel 1981, ma il virus venne identificato definitivamente, dopo molti errori, nel 1986. In concomitanza con questo processo di scoperta scientifica, e in contrasto con esso, figure religiose e politiche hanno avanzato le loro teorie. 

«Molte persone considerano le cose che il governo fa per loro come progresso sociale, ma considerano le cose che il governo fa per gli altri come socialismo».

In effetti, uno degli aspetti più rilevanti dell’epidemia di HIV/AIDS è stata l’enorme quantità di stigma religioso usato per “spiegare” il virus. «La rivoluzione sessuale ha iniziato a divorare i suoi figli. E tra l’avanguardia rivoluzionaria, ovvero tra gli attivisti per i diritti dei gay, il tasso di mortalità è il più alto e continua ad aumentare […] I poveri omosessuali hanno dichiarato guerra alla natura, e ora la natura esige una terribile punizione», scrisse Pat Buchanan in un editoriale del 1983 sul New York Post. Un anno e mezzo dopo, venne assunto come direttore delle comunicazioni della Casa Bianca per Ronald Reagan e nel 1992 si candidò alla presidenza. Il pregiudizio e l’idiozia sono duri a morire. Nel 2013, il telepredicatore Pat Robertson affermò che a San Francisco gli omosessuali avevano dotato i propri anelli di punte taglienti che avrebbero trasmesso l’HIV alle persone che stringevano loro la mano.

Questo stesso tipo di superstizione, alimentata dalla religione, ha influenzato la prima risposta degli Stati Uniti al COVID-19. Ralph Drollinger, un ex amministratore della NBA che teneva un corso di studio della bibbia con cadenza settimanale per il governo Trump, ha dichiarato che il virus è frutto dell’ira di Dio contro una schiera di «menti depravate», inclusi omosessuali e ambientalistə. I partecipanti regolari al corso di Drollinger includevano il segretario di Stato Mike Pompeo, il segretario per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano Ben Carson, la segretaria all’istruzione Betsy DeVos e il segretario alla salute Alex Azar. Man mano che la pandemia di COVID-19 cresceva e l’ansia nazionale, personale e sociale aumentava, eravamo consapevoli che questa situazione governativa ci avrebbe riservato altro.

Di fronte a tale superstizione e pregiudizio, come possiamo mettere in pratica il concetto di salute pubblica per illuminare queste tenebre?

Simon Watney, è un attivista britannico che mira a portare consapevolezza su HIV\AIDS ed è stato il primo teorico dell’epidemia.  Watney notò, alcuni anni dopo i primi casi, che non c’era «nessuna epidemia di AIDS», ma che ogni città, regione e paese aveva la propria epidemia con caratteristiche specifiche. Questa logica di buon senso ha modificato la percezione che si aveva all’epoca sulla malattia e ha contribuito a mappare nuove soluzioni. “L’epidemia di AIDS” a San Francisco, trasmessa principalmente attraverso il contatto sessuale tra uomini, ha richiesto assistenza, informazioni sulla prevenzione, istruzione, supporto della comunità e strutture di cura sostanzialmente diverse rispetto all’epidemia di Newark, che è stata in gran parte causata dalla condivisione di aghi infetti.

Il pensiero di Watney era semplice: non generalizzare, ma guarda al contesto. In Malattia come metafora Susan Sontag sostiene che tutte le malattie sono costruite socialmente. Cita l’esempio della tubercolosi e della tisi: la prima, una malattia diffusa tra gli abitanti dei quartieri poveri, la seconda, una malattia diffusa tra artisti romantici colti, eppure, entrambe causate dallo stesso batterio, il Mycobacterium tuberculosis. La cultura modella non solo il modo in cui vediamo la malattia, ma anche il modo in cui la viviamo. Attingendo alle intuizioni di Watney e Sontag, possiamo osservare che i focolai di COVID-19 in Cina, Italia e Stati Uniti sono tutti causati dallo stesso agente patogeno. Tuttavia, la manifestazione e la risposta a ciascuna ondata sono costruite su modelli di socializzazione, geografia, densità di popolazione, ruolo del governo nell’assistenza sanitaria e, soprattutto, preparazione. I dibattiti televisivi infiniti che si domandavano se gli Stati Uniti sarebbero stati la prossima Italia o la prossima Corea del Sud ignoravano il fatto che gli Stati Uniti non somigliano molto a nessuno di questi paesi per quanto riguarda il contesto culturale e le origini degli assetti sociali. Pensare in grande e ignorare i contesti, i dettagli e le specificità non è un modo di pensare più intelligente, semmai è un modo di pensare più approssimativo, che inibisce l’analisi razionale di come prendere le decisioni quotidiane per affrontare il virus.

Uno dei grandi progressi nell’educazione e nella prevenzione dell’HIV/AIDS è stata la centralità della valutazione e della mitigazione dei rischi. Si presumeva che nessuna strategia efficace di contenimento della malattia potesse iniziare dall’astinenza: le persone avrebbero continuato a impegnarsi in attività di ricerca del piacere perché è questo che fanno gli esseri umani. Ci si pose il problema di come lə espertə di salute pubblica potessero aiutare le persone a valutare realisticamente il rischio di contrarre e diffondere la malattia durante le interazioni con altre persone, e se ci fossero dei metodi per ridurlo almeno in parte . Questo approccio, chiamato riduzione del rischio, è stato un importante passo avanti nel controllo della diffusione dell’HIV e ha evidenti conseguenze sulla pandemia di COVID-19, in cui le persone devono, in questo momento, effettuare valutazioni estemporanee dei rischi posti dalle attività quotidiane.

Comprendere il rischio epidemiologico è fondamentale per limitare la diffusione di una malattia. Altrettanto importante, però, è capire che, a causa dei nostri pregiudizi culturali, il concetto di rischio tende a trasformarsi nella logica della colpa: chi è responsabile di questa malattia? Chi dovrebbe essere evitato? Chi dovrebbe essere contenuto? Chi dovrebbe essere emarginato dalla società? L’antropologa Mary Douglas sostiene nel suo influente Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù che la malattia e i concetti di contaminazione danno sempre origine all’altro: separano il puro dall’impuro e la presunta sicurezza dal presunto pericolo. La creazione dell’altro, che si tratti di uomini gay, comunità gay, tossicodipendenti che usano siringhe, prostitute, haitiani e persino bambini che convivono con l’HIV/AIDS, è stata fondamentale per costruire l’immaginario collettivo della malattia negli USA che ha avuto delle conseguenze non indifferenti. I gay e la loro sessualità sono stati demonizzati; alle persone con HIV/AIDS è stata negata l’assicurazione sanitaria; molte ancora sono state sfrattate dai loro appartamenti; talvolta sono state rifiutate le cure mediche, e persino i funerali. La frase “piaga gay” era diventata un luogo comune nei tabloid.

L’antropologa Mary Douglas sostiene nel suo influente Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù che la malattia e i concetti di contaminazione danno sempre origine all’altro: separano il puro dall’impuro e la presunta sicurezza dal presunto pericolo.

I provvedimenti e la retorica furono estremi.  Per citarne alcuni, il dipartimento della salute di San Francisco sostenne la chiusura degli stabilimenti balneari gay e persino dei bar; la Proposition 64, un’iniziativa a livello statale che avrebbe consentito la messa in quarantena delle persone con HIV, arrivò al ballottaggio nella California del 1986 e politici di molti altri stati sollevarono la questione della quarantena. Negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, Robert Redfield, allora maggiore dell’esercito al Walter Reed Medical Institute e che attualmente ricopre la carica di direttore delCDC, il centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie , collaborò con Americans for a Sound HIV/AIDS Policy (ASAP), un gruppo cristiano di destra che ha fatto pressioni per far perdere la licenza professionale alle persone con HIV e metterle in quarantena. Il venerato portavoce conservatore William F. Buckley propose in un editoriale del New York Times datato 18 marzo 1986: «tutti coloro che sviluppano l’AIDS dovrebbero essere tatuati nella parte superiore dell’avambraccio, per proteggere gli utilizzatori di aghi, e sui glutei, per evitare che altri omosessuali vengano contagiati”. Anche la comunità gay ha avuto un ruolo in questa caccia alle streghe: nel suo bestseller del 1987 And the Band Played On, il giornalista gay Randy Shilts incolpò gli uomini che frequentavano gli stabilimenti balneari. Basandosi su un’epidemiologia completamente sbagliata, accusò Gaetan Dugas, un assistente di volo canadese, di esser stato ” il  paziente zero” e di aver portato l’HIV negli Stati Uniti.

Il concetto di rischio nell’era COVID-19 è per certi versi più chiaramente definito e altrettanto abusato. Sappiamo come si diffonde il COVID-19 e come evitarlo: uso del disinfettante, lavarsi le mani, non toccarsi il viso, distanziamento sociale e auto-quarantena. Le misure sanitarie variano dall’essere facili e sensate ad atti più calcolati e onerosi di protezione personale e sociale. L’isteria, tuttavia, così centrale nella risposta all’HIV/AIDS, si annida alla periferia dei pensieri e delle azioni. L’opinione pubblica, con Trump come direttore del circo, ha individuato nei cinesi i portatori della malattia, e i crimini d’odio contro gli asiatici statunitensi sono saliti alle stelle. Nel frattempo, l’assalto ai supermercati per comprare letteralmente qualsiasi cosa, dalla zuppa in scatola alla candeggina, ai tovaglioli di carta, è un tentativo irrazionale di aggrapparsi alla stabilità sociale; l’ansia e la frenesia di accaparrarsi la carta igienica illustrano perfettamente le idee di Douglas sulla necessità di controllare e contenere il contagio.

Allo stesso tempo, c’è stata una parte della società irremovibile nel suo rifiuto della scienza e, in molti casi, anche nel rifiuto delle più elementari misure di buon senso contro la malattia, poiché convinta che l’intera faccenda sia in qualche modo un complotto di sinistra contro la libertà religiosa. Molte grandi chiese evangeliche, come The River a Tampa Bay, hanno continuano a tenere le funzioni religiose, sostenendo che la fede in Gesù proteggerà i parrocchiani dal COVID-19 (in Corea del Sud, alcuni grandi focolai di Coronavirus sono stati ricondotti proprio alle funzioni religiose).  Anche il college biblico di Jerry Falwell, la Liberty University, si è rifiutato di sospendere le lezioni in presenza. Katherine Stewart, sul New York Times, sostiene che «la negazione della scienza e del pensiero critico tra gli ultraconservatori religiosi ora perseguita la risposta americana alla crisi del Coronavirus» e che la dipendenza di Trump da quella base elettorale ha peggiorato, se non causato, la diffusione del virus, fino a raggiungere proporzioni epidemiche negli Stati Uniti.

La religione guida anche il business. David Green, il proprietario evangelico di destra del negozio di artigianato nazionale Hobby Lobby, che paga lə impiegatə dieci dollari l’ora e non ha una politica di congedo per malattia, ha incaricato i gestori dei negozi di rimanere aperti nonostante la pandemia in corso, quando molte attività commerciali non essenziali stavano chiudendo. La sua motivazione: «serviamo un Dio che ci guiderà attraverso questa tempesta, che ci custodirà mentre viaggiamo in luoghi mai visti prima e che, come risultato di questa esperienza, ci condurrà a essere migliori di quanto avremmo mai potuto pensare possibile prima d’ora» Come sottolinea Mary Douglas, la fede religiosa cieca è spesso più confortante della scienza.

Da persona che ha vissuto le crociate moralistiche contro i gay negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, sono infuriato ma non sorpreso di vedere che la storia si ripete ancora con il COVID-19. A differenza dell’HIV, che si trasmette con poche modalità, il Coronavirus si diffonde facilmente, efficacemente, anche casualmente, ed è difficile sapere chi te l’abbia passato poiché la maggior parte dei soggetti infetti è asintomatica. Non richiede alcun contatto intimo, anzi, nessun contatto di sorta. In teoria questo dovrebbe ridurre il miasma della colpa: potremmo essere tutti il ​​paziente zero di qualcuno; eppure, l’impulso a cercare un capro espiatorio cresce di giorno in giorno. I continui riferimenti di Trump al «virus cinese» si sono trasformati in un memorandum del Dipartimento di Stato, riportato su The Daily Beast, che ha incaricato varie agenzie federali di incolpare la Cina per l’insabbiamento che avrebbe causato la pandemia. L’ex segretario Pompeo ha chiesto al G7 di usare l’espressione «virus di Wuhan», in una delle sue dichiarazioni sulla pandemia. La chiusura dei viaggi dalla Cina e poi da gran parte dell’Europa, dopo che il COVID-19 era già ben radicato negli Stati Uniti, è stato puro opportunismo nazionalista.  La telepredicatrice Mary Colbert ha dichiarato che la Cina ha causato il COVID-19 mangiando «animali impuri», secondo la definizione data nel Levitico; un’affermazione riecheggiata, in toni laici, anche da organi di stampa apparentemente di sinistra come Vox.

I cicli di retorica religiosa, nativista e anti-sessuale della colpa ricorrono con sorprendente frequenza nella storia degli Stati Uniti e continueranno sicuramente in assenza di una cultura unificante e basata  sulle evidenze scientifiche della salute pubblica.

Questo articolo , di cui potete trovare la versione originale qui, è stato tratto da Boston Review ed è stato scritto da Michael Bronski, docente ad Harvard che si occupa di attivismo e media in relazione agli studi di genere, delle donne e della sessualità.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/clarice/" target="_self">Clarice Santucci</a>

Traduzione a cura di: Clarice Santucci

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