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Lo stupro come progetto politico

Come il patriarcato mantiene il dominio commettendo atti di violenza

TW: Si parla di stupro

Una notte del novembre 1992, Toñi, Miriam e Desirée partirono da Alcàsser, un paese in provincia di Valencia, per andare a una festa in una discoteca di un paese vicino. Fecero l’autostop. Non tornarono mai. Avevano tra i quattordici e i quindici anni. I loro corpi vennero ritrovati tre mesi dopo in una fossa che, come si seppe più tardi, avevano scavato loro stesse. I loro assassini non solo le avevano stuprate, ma le avevano anche torturate in modi inimmaginabili. Niente sarebbe stato come prima per le tre ragazze di Alcàsser e per le loro famiglie. Niente sarebbe stato come prima nemmeno per un’intera generazione di giovani donne spagnole.

Noi che scriviamo questo articolo all’epoca dei fatti avevamo dodici e sedici anni, e se non abbiamo mai avuto il coraggio di fare l’autostop, malgrado fossimo intraprendenti e viaggiatrici, è dovuto al terrore che ci aveva suscitato il racconto mediatico scaturito da questo triplice crimine. Per questo ci risulta illuminante, tanto doloroso ma allo stesso tempo liberatorio il libro pubblicato da Nerea Barjola, Microfísica del poder. El caso Alcàsser y la construcción del terror sexual.

Barjola ha dedicato la sua tesi di dottorato all’analisi di questo racconto mediatico, che ha lanciato un messaggio intimidatorio e colpevolizzante a una generazione di donne che rivendicava la propria libertà di movimento. Ci è stato detto che superare i limiti costa molto caro. L’autostop è diventato il simbolo della trasgressione che dovevamo evitare per non meritarci un castigo tanto severo come quello subito dalle tre ragazze di Alcàsser. Ma le trasgressioni sono tante: indossare una gonna troppo corta, andare con sconosciuti, viaggiare «sole», tornare sole a casa. Con «sole» intendiamo senza la protezione di un uomo, proprio come Toñi, Miriam e Desirée. Come dice Barjola, qualsiasi donna senza protezione maschile si trova in una «terra di nessuno», uno spazio simbolico che, in assenza di uomini a difenderci, rende i nostri corpi un bene pubblico, a disposizione di qualunque uomo voglia farne uso e abuso.

Il terrore sessuale, dunque, è una forma di addomesticamento delle donne, una forma di controllo dei corpi femminili, che diviene autocontrollo quando introiettiamo questo comando, quando rinunciamo a viaggiare, ad andare alle feste, a fare sesso, a vestirci come ci piace, per paura di essere violentate, assassinate o torturate. Se, come sostiene Virginie Despentes, la violenza è un progetto politico, una forma di sostegno alla dominazione di genere, allora il terrore sessuale è un discorso che, afferma Barjola, è inciso sul corpo delle donne. Questa narrativa ci viene instillata con diverse strategie; tra le quali c’è sempre la colpevolizzazione della vittima, per quello che faceva, per le sue abitudini, per i suoi vestiti; ci si focalizza su di lei, su quello che avrebbe dovuto fare per evitare l’aggressione, che si presume essere inevitabile, ma allo stesso tempo ci viene presentata come un’eccezione. Sì, perché se non lo fosse dovremmo ammettere che viviamo in una società patriarcale e misogina nella quale la violenza sul corpo delle donne non solo è quotidiana e costante, ma è un elemento strutturale, così come lo è il razzismo.

Il crimine di Alcàsser ha funzionato come una minaccia per le donne della nostra generazione. Nessuno aveva messo in discussione i tipi di mascolinità che si stavano riproducendo perché un tale orrore fosse possibile; tutta l’enfasi si era concentrata sui modi per tenere al sicuro le adolescenti, per proteggerle dal proprio desiderio di libertà. Come afferma l’antropologa argentina, Rita Segato, lo stupro è un atto di potere e dominio, è «un atto di moralizzazione per aver oltraggiato la legge patriarcale». Ci avverte che ci sono dei limiti che non possiamo superare. Ovviamente, non accettiamo passivamente questo assunto, noi donne abbiamo sempre resistito, però c’erano cose che avremmo voluto fare ma che non abbiamo mai fatto. In ogni caso, tutto il dispiegamento televisivo intorno a quel crimine brutale ha provocato una sorta di ritirata in un contesto in cui le donne stavano conquistando lo spazio pubblico nella Spagna post-franchista. Forse gli uomini che ci leggono non ne hanno memoria, in fin dei conti il messaggio non era destinato a loro, ma qualunque lettrice, in qualsiasi paese, ricorderà casi simili che ne hanno segnato l’infanzia o l’adolescenza.

I casi recenti abbondano. Il 25 maggio 2019, una donna di trentadue anni si è suicidata a Madrid dopo che un suo video sessuale di cinque anni prima era diventato virale dopo essere stato diffuso per ritorsione, dal suo partner, senza il consenso dell’interessata. Il video era diventato velocemente uno dei più cercati sulla rete, mentre i media avvertivano le giovani donne e le adolescenti di non riprendersi durante i rapporti sessuali, dopotutto ci viene detto se non vuoi che venga divulgato, perché lo fai? Dopotutto, perché indossi una minigonna se non vuoi essere violentata? Perché viaggi da sola se non vuoi essere ammazzata? Alla fine dei conti, sono sempre le donne a essere incolpate. L’errore fatto nello scegliere il proprio abbigliamento, nel decidere di filmarsi, nel muoversi, nel dire una parola di troppo, nell’omettere un gesto, in questo modo incoraggiando l’uomo, totalmente incapace di controllarsi… però attenzione «not all men». Il torero Fran Rivera, dopo aver fatto coming out come franchista, ci ha sorpreso riciclando il discorso che solitamente ci viene instillato con una maggiore dissimulazione: «Noi uomini non siamo in grado di avere tra le mani un video del genere e non diffonderlo». Allo stesso modo, il giudice di turno ci dice che se indossiamo la gonna come possiamo aspettarci che l’uomo si contenga. E così, come dice Virginie Despentes, gli uomini ignorano fino a che punto tutto questo sia organizzato in modo scrupoloso per garantire il loro trionfo, senza troppi rischi, quando attaccano una donna.

Nel suo libro, Barjola spiega l’importanza del discorso dominante nel riflettere la struttura sociale e come questo segni inevitabilmente il modo in cui le donne raccontano le proprie esperienze di violenza. Contro la narrazione del terrore è necessario creare un contronarrazione e, quando si parla di risignificare gli abusi sessuali, Despentes è l’esempio migliore. La sua analisi nel saggio King Kong Theory è probabilmente uno dei primi racconti di violenza fatti da una donna in prima persona senza giri di parole, attraverso l’uso di un linguaggio crudo e una riflessione lucida che non lasciano indifferente chi legge. Per questa ragione, il movimento Me Too ha utilizzato il libro come punto di riferimento per fare un appello a tutte le donne affinché prendessero coraggio e raccontassero le proprie esperienze. Despentes, che a 17 anni è stata violentata da un gruppo insieme a un’amica mentre faceva l’autostop, racconta che durante lo stupro aveva un coltello nella giacca, ma che non aveva pensato nemmeno una volta di tirarlo fuori per difendersi dai suoi aggressori, poiché il progetto stesso della violenza la definiva una donna e, di conseguenza, una creatura essenzialmente vulnerabile. Alla fine, uno di loro ha trovato il coltello e lo ha mostrato agli altri, sorpreso che lei non l’avesse estratto e ha concluso: «Allora le piaceva».

In questo saggio del 2006, Despentes afferma che la violenza è qualcosa di insito nell’uomo, l’unica cosa di cui la donna, fino a questo momento, non si è ancora riappropriata. Per questa ragione l’autrice se ne appropria, ne scrive senza mezzi termini, dando allo stupro un significato al quale non eravamo abituate. Il suo stesso stupro e la lettura che ha fatto della controversa femminista americana Camille Paglia, l’hanno portata a vedere la sua esperienza sotto una luce diversa. L’attenzione di Despentes è stata attirata da una particolare riflessione di Paglia: se ti violentano, rialzati, va avanti, rassettati e consideralo come qualcosa di inevitabile che tutte noi rischiamo ogni giorno uscendo per strada. La vittimizzazione e la tutela statale non sono la risposta né per Paglia né per Despentes; e tantomeno lo è vederci come corpi sacri che perdono ciò che è importante a seguito di un atto di violenza sessuale.

Angela Davis in Donne, razza e classe fa un’analisi rigorosa dove rivela le strategie di lotta delle donne nere. In questo saggio riflette sul ruolo dello stupro durante l’era della schiavitù come arma di dominio e repressione volta a demolire il desiderio di resistenza delle donne nere e a demoralizzare i loro uomini, e chiarisce come si sia formata un’arma di terrorismo politico di massa, un elemento istituzionalizzato di aggressione forgiato per intimidire e terrorizzare non solo le donne, ma anche i loro uomini. Per Davis, lo stupro non è la conseguenza di una personalità aggressiva e nemmeno di una caratteristica intrinseca alla mascolinità, si tratta piuttosto del risultato di un sistema basato sul dominio violento.

Nel 2018, una di noi ha lavorato a un’inchiesta sul ruolo delle donne nella lotta operaia e sindacale della provincia di Cádiz durante la dittatura franchista. Il racconto della sindacalista che è stata intervistata è un buon esempio di contronarrazione. Dai quattro fino ai dieci anni, Ana Perea fu violentata sistematicamente da un vicino che, in nome del dittatore, minacciava di ammazzare i suoi genitori se l’avesse raccontato. Cinquant’anni dopo, Ana ha deciso di parlare per la prima volta. È stato liberatorio per lei, per la sua sessualità e anche per suo marito. Quel fatto fu centrale nella sua vita, però Ana è anche la contronarrazione fisica della vittimizzazione, lei è l’esempio del rialzati, rassettati e va’ avanti; e non solo è andata avanti con la sua vita dopo lo stupro, ha anche continuato a combattere contro le ingiustizie sociali durante la dittatura spagnola. Senza dubbio, si è sempre portata dentro quel segreto fino a comprendere, in età molto adulta, che doveva dargli un nome, raccontarlo, perché solo in quel modo poteva liberarsi dai sensi di colpa, vergogna e terrore che l’hanno accompagnata per così tanto tempo.

Sembra che noi donne stiamo cominciando a riappropriarci dell’esperienza dello stupro attraverso la parola, come il Yo te creo e il Me Too, con opere come quella di Despentes, Nerea Barjola o Angela Davis o con racconti come quello di Ana. Riprendere il controllo su questi racconti, pensarci ed esporli usando la nostra voce e il nostro punto di vista è la miglior arma che possiamo impiegare per cominciare a cambiare le cose, solo così avremo potere sulle parole e sugli stupratori. Dobbiamo cercare significati nuovi e diversi attraverso un punto di vista femminista, smontando così il racconto spaventoso e paralizzante che ci è stato inculcato, deve essere il nostro compito principale, allo scopo di elaborare strategie di lotta contro questo terrorismo sessuale nel quale viviamo. Virginie Despentes suggerisce che forse per il sistema non è desiderabile che il sesso femminile smetta di essere accessibile attraverso la forza. È necessario che questo accesso rimanga aperto e che le donne rimangano timorose. È necessario che le donne restino a disposizione dell’uomo. Sennò che cosa può definire la mascolinità?

Il messaggio dominante che riceviamo di continuo è che da un crimine così orribile non possiamo e non dobbiamo riprenderci; non possiamo lasciarcelo alle spalle. In Spagna, è stato espresso chiaramente con il caso de La Manada (il branco), uno stupro di gruppo avvenuto a Pamplona nel 2016. Gli avvocati degli stupratori avevano presentato dei video forniti da investigatori privati in cui si poteva vedere la vittima uscire e fare una vita «normale» dopo essere stata violentata. Questo, per gli avvocati e a quanto pare anche per i magistrati, dimostrava che quell’aggressione le era piaciuta. Per noi, invece, quel giudizio ha evidenziato il messaggio dominante che c’era dietro.

Come spiega Silvia Federici nel prologo al libro di Barjola, nel 1992 le femministe non riuscirono a organizzare una contronarrativa per fronteggiare il racconto mediatico del terrore; oggi però le cose sono diverse. Dopo la sentenza sul caso de La Manada siamo uscite per strada, e noi eravamo davvero un branco. Lo stesso è accaduto in seguito all’assassinio e tortura dell’adolescente argentina Lucia Pérez. Abbiamo gridato insieme: «Sorella, io ti credo» e siamo riuscite a far capire che questo grido è un’argomentazione politica e non una semplice opinione personale. E continueremo, dando un nome allo stupro, all’abuso e alla tortura sessuale, risignificandoli e sostenendoci a vicenda. Se toccano una, minacciano tutte, e questo è sempre stato molto chiaro all’ordine patriarcale.

«I media non sono spettatori passivi, sono partecipanti attivi di questo progetto politico, che è l’equivalente della caccia alle streghe» scrive Federici. O, come disse Judith Butler: «Il giornalismo è un luogo di lotta politica… inevitabilmente».

L’articolo è stato scritto da Pilar Pinto e Nazaret Castro per Amazonas. Potete trovare l’articolo originale qui.

Traduzione a cura di: <a href="https://www.ilfemminismotradotto.it/author/valentina/" target="_self">Valentina Pesci</a>

Traduzione a cura di: Valentina Pesci

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