La battaglia femminista per i diritti politici dal’900 ad oggi: Stati Uniti e America Latina a confronto- seconda parte
Una narrazione stereotipata e la mancanza di discorsi intersezionali sono tra le cause del fallimento del sistema politico statunitense in materia di parità di genere
Un’azione positiva a sostegno delle candidate sembra essere la riforma elettorale più popolare del millennio, ma non negli Stati Uniti, in cui le leggi sulle quote di genere non sono direttamente attuabili nel sistema. Una peculiarità del sistema politico statunitense, infatti, è che i partiti politici non controllano l’accesso alla scheda elettorale: i candidati e le candidate si registrano in maniera autonoma, e chiunque può farsi avanti, rivendicare un’etichetta di partito e raccogliere firme sufficienti per comparire sulla scheda elettorale. Tuttavia, l’idea di un’azione positiva resta importante, soprattutto perché voci influenti negli Stati Uniti percepiscono ancora le donne come il problema. Nel 2016 Hillary Clinton è stata la prima donna appartenente a un grande partito a correre alle presidenziali. Sulla scia di questo traguardo, il New York Times titolava: «Il problema per le donne non è vincere, è decidere di candidarsi». L’articolo in questione citava la senatrice Kirsten Gillibrand, che dichiarò di aver impiegato dieci anni per convincersi a candidarsi, proprio perché «il peggior difetto delle donne è che sono le prime a mettere in dubbio se stesse». EMILY’s List è un comitato di azione politica fondato nel 1985 per sostenere le candidature femminili. Trentacinque anni dopo la sua nascita, il numero di gruppi operativi a livello federale, statale e locale che si occupano di donne desiderose di intraprendere una carriera politica è arrivato a circa quattrocento. Nonostante questa partecipazione, la narrazione resta la stessa; come fa notare l’associazione She Should Run, «Non è che noi donne non vinciamo, è che non ci proviamo». Queste associazioni non hanno di certo torto. Uno studio del 2010 intitolato It Still Takes a Candidate: Why Women Don’t Run for Office condotto da Richard Fox e Jennifer Lawless ha concluso che le donne manifestano livelli inferiori di ambizione politica rispetto agli uomini. Il fatto che alle donne manchi il desiderio di candidarsi è riscontrabile sia all’interno e all’esterno del mondo accademico, sebbene moltə ricercatori e ricercatrici dimostrino che questa mancanza di ambizione individuale rifletta problemi strutturali. Shauna Shames ha scoperto, attraverso un sondaggio incentrato su gruppo di aspiranti candidatə, che le donne si percepiscono svantaggiate rispetto agli uomini in ogni aspetto della campagna, dalla mancanza di un trattamento equo da parte dei media, alla raccolta di fondi, all’essere continuamente criticate anche per i più piccoli errori.
Le donne sono anche meno incoraggiate a candidarsi rispetto alla controparte maschile. Anche se i partiti politici statunitensi non controllano l’accesso alle schede elettorali, influenzano comunque la partecipazione di aspiranti politici e politiche. In particolare, le reti di partito locali non sono altro che dei club per signori che tendono a reclutare, per l’appunto, solo uomini. Questa propensione è presente anche nel Partito Democratico, nonostante l’insistenza dei leader sull’importanza della rappresentazione femminile. Nel 2018 il Comitato nazionale democratico ha celebrato i suoi sforzi per migliorare la rappresentazione descrittiva, raggiungendo il 70% di dipartimenti guidati da donne e il 44% di membri di colore dello staff. Allo stesso tempo, durante le elezioni della Camera in vari stati, alcune candidate democratiche hanno riferito di aver ricevuto l’ordine di aspettare il loro turno. I leader democratici locali avevano scelto uomini per il seggio, etichettando le aspiranti candidate come “arriviste” e “candidate di minoranza”. Per le candidate nere il messaggio è stato ancora più forte. Quando le donne corrono alle elezioni, le vincono, ma lo fanno «camminando all’indietro con i tacchi alti». Il Center for American Women in Politics riporta dei dati incoraggianti in termini di prestazioni delle donne: le candidate hanno un vantaggio di qualità rispetto ai concorrenti maschi, soprattutto per quanto riguarda l’esperienza. La professoressa Sarah Fulton ha scavato più a fondo, valutando la qualità dei candidati e delle candidate in base a undici parametri diversi, dalla capacità di parlare in pubblico all’integrità personale. Le donne elette hanno ottenuto punteggi più alti nella scala della qualità rispetto agli uomini eletti. Il lavoro di Fulton e di altrə espertə dimostra ampiamente che la rosa delle candidature è composta principalmente da donne competenti e alcuni uomini mediocri.
Le reti di partito locali non sono altro che dei club per signori che tendono a reclutare, per l’appunto, solo uomini. Questa propensione è presente anche nel Partito Democratico, nonostante l’insistenza dei leader sull’importanza della rappresentazione femminile
Le associazioni a sostegno delle candidate sono molto importanti in un sistema incentrato sulle candidature per diversi motivi; in primo luogo, rispondono all’ethos individuale delle elezioni statunitensi, aiutando le candidate a risollevarsi nei sondaggi attraverso il metodo statistico bootstrap . Le organizzazioni di donatori e i programmi di formazione procurano fondi e reti di conoscenze, e non fanno mancare lungimiranza e ispirazione, livellando il campo di gioco tra donne e uomini. Mettono in risalto il concetto di empowerment, combinando i messaggi «puoi vincere» con i promemoria che le voci delle donne migliorano i risultati, usando lo stesso ragionamento strumentale dei politici e dei filantropi internazionali. Ma una narrazione che esorti le donne a essere determinate implica ancora che sono le loro carenze a tenerle fuori dai giochi e che quindi, l’onere di risolvere il problema ricada sulle donne stesse. Un cambiamento di rotta significherebbe, invece, che siano gli uomini a doversi esporre. Concentrarsi su ciò che non va nelle donne trascura il modo in cui la discriminazione di genere pone barriere sistematiche e strutturali per le candidate, mentre le rimuove per i candidati. Il cliché sull’assenza di ambizione femminile deresponsabilizza il ruolo dei governi nel mancato raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale. Concentrarsi, invece, a garantire il “diritto di essere elette” consentirebbe agli attivisti e alle attiviste statunitensi di ridefinire alcuni ostacoli per quello che sono, ovvero, violazioni dei diritti politici delle donne; ad esempio, nonostante le candidate siano più preparate rispetto alla controparte maschile, continuano a essere elette di meno. Inquadrata in questo modo, un’azione positiva sembra più sostenibile attraverso una serie di iniziative politiche che vadano oltre le quote e includa la riduzione o l’eliminazione delle tasse di deposito per le candidate, l’assegnazione di fondi di partito per le campagne femminili, o ancora corsi di formazione alla leadership. Alcuni Paesi classificano persino il trattamento sessista e le molestie, sia nei media che online, come forme di violenza politica punibili attraverso sanzioni legali.
Molti stati applicano le leggi sulle quote non solo per le candidate alle elezioni, ma anche ai consigli di amministrazione dei partiti politici; altri richiedono i nomi delle donne nelle liste ristrette della fase pre-candidatura, cioè quando i leader del partito scelgono chi sostenere (si pensi a Mitt Romney e ai suoi “raccoglitori pieni di donne”). Queste riforme si tradurrebbero in politiche federali e statali e potrebbero anche non aver bisogno di una legislazione; per esempio, il Partito Democratico richiede già che le delegazioni alla convention nazionale siano composte per il 50% da uomini e per il 50% da donne. Stessa regola vale per tutti i comitati, incluso il Comitato nazionale democratico, sebbene gli statuti del partito chiariscano che questo equilibrio non sia dovuto all’applicazione di una quota di genere! Il Partito Repubblicano opta per un tocco più leggero, ma chiede comunque che ogni stato “si sforzi” di avere un numero uguale di uomini e donne nelle sue delegazioni alla Convention. I partiti in Germania, Svezia, Sudafrica e Mozambico, tra i tanti, in assenza di leggi nazionali sulle quote,le hanno adottate volontariamente. Grazie a queste misure,molte donne sono state elette senza necessità di un intervento del governo.
Comprensibilmente, il concetto di azione positiva ha una storia unica e tormentata negli USA. L’eredità della schiavitù e l’associazione dell’azione positiva con la razza comporta che le rivendicazioni sui diritti positivi ottengano poca popolarità in ambito sociale o legale. La studiosa di diritto Ruth Rubio-Marín spiega che, gli argomenti per la parità di genere, concentrandosi sull’ingiustizia del patriarcato, separano la questione dell’esclusione politica delle donne da quella dei gruppi razziali o delle minoranze etniche. Questa separazione retorica ha funzionato altrove, ma non negli Stati Uniti, dove la supremazia bianca e il patriarcato sono intrecciati, e Rubio-Marín crede che qualsiasi discussione sull’azione positiva per le donne richieda una discussione simultanea sull’azione positiva per la comunità afroamericana. Le forze combinate di razzismo e sessismo renderebbero questo tipo di conversazione improbabile. Emily J. Zackin offre una visione più ottimistica sulla probabilità che un’azione positiva prenda piede. In Looking for Rights in All the Wrong Places sottolinea che mentre la Costituzione tace sui diritti positivi, tali diritti abbondano nelle costituzioni statali, dalle garanzie all’istruzione pubblica alle tutele dei lavoratori. Questi diritti sono stati conquistati da attivistə ostinatə che hanno esercitato pressioni sui legislatori statali, si sono impegnatə in contenziosi strategici e hanno condotto campagne di successo per referendum elettorali. Secondo Zackin, la nozione di obbligo positivo dei governi di fornire beni materiali o produrre risultati equi non è un concetto estraneo, ma un’idea già approvata sia da chi vota sia da chi fa le leggi.
Negli Stati Uniti, dove la supremazia bianca e il patriarcato sono intrecciati, Rubio-Marìn crede che qualsiasi discussione sull’azione positiva per le donne richieda una discussione simultanea sull’ azione positiva per la comunità afroamericana
La comunità internazionale ha abbracciato le quote e la parità di genere perché, una per una, le donne politiche e le attiviste femministe hanno avanzato proposte di legge che corrispondevano alle realtà del loro paese. Trecento anni fa il diritto di eleggere ed essere eletti intendeva negare la cittadinanza alle donne. Negli ultimi decenni, le donne in America Latina e in tutto il mondo hanno trasformato questa frase di esclusione in un inno all’uguaglianza, orientando la conversazione sulla rappresentanza politica a incentrarsi sulla cittadinanza e la giustizia. In tal modo, hanno spinto la legge elettorale e la pratica di partito oltre ciò che giuristi e studiosi avrebbero potuto solo immaginare uno o due secoli fa. Mentre gli Stati Uniti celebrano cento anni dal suffragio femminile, pur rimanendo simili all’Afghanistan per numero di donne nella legislatura federale, le femministe d’oltreoceano potrebbero abbracciare le stesse lotte di quelle latinoamericane.
L’impossibile diventa possibile solo se qualcuna ci prova.
Questa traduzione è la seconda e ultima parte dell’articolo pubblicato su The Boston Review da Jennifer Piscopo, docente di scienze politiche alla University of California.