La battaglia femminista per i diritti politici dal ‘900 ad oggi: Stati uniti e america latina a confronto- Prima parte
L’evoluzione del suffragio femminile attraverso il voto, la partecipazione attiva e la rappresentazione.

Il pensiero occidentale concepisce tradizionalmente “il cittadino” secondo la definizione proposta da Aristotele ne La politica: «Colui che ha il potere di prendere parte alle attività di governo o di giudice di una città, è da noi considerato cittadino di quella città». In altre parole, consideriamo cittadini coloro a cui sono garantiti i diritti politici, inclusi il diritto di voto e il diritto a ricoprire cariche elettive.
Ma chi gode veramente di questi diritti?
Quando il Nuovo Mondo conquistò l’indipendenza dall’Europa, i costituzionalisti repubblicani determinarono i diritti politici sulla base dell’esclusione tanto quanto su quella dell’inclusione. Un esempio furono proprio gli Stati Uniti, in cui a donne, bambini, popoli indigeni e schiavi non venne garantita né la cittadinanza né altri diritti fondamentali, escludendoli di fatto dallo Stato. Nonostante la Costituzione fosse stata ratificata nel 1788, agli afroamericani venne concesso il diritto di voto circa un secolo dopo grazie al XV emendamento promulgato nel 1870. Alle donne toccò aspettare 150 anni, fino all’approvazione del XIX emendamento nel 1920; molti cittadini neri e ispanici attesero ancora più a lungo, fino al Voting Rights Act del 1965. La maggior parte degli americani considera queste conquiste storiche legate al diritto di voto come sinonimo di cittadinanza. Insomma, il 1920 è l’anno in cui le donne divennero cittadine a tutti gli effetti. Le donne statunitensi che vogliono intraprendere la carriera politica, dunque, possono contare solo sulle proprie forze: in genere, creano dei gruppi per sostenere le raccolte fondi delle campagne elettorali e gestiscono scuole di formazione per le candidate. Nonostante questi sforzi, gli Stati Uniti non raggiungono la parità di genere. Per buona parte degli anni 2000, la percentuale di donne presenti in Parlamento si attestava intorno al 20%. In seguito, un numero record di donne, appartenenti soprattutto al Partito Democratico, si sono candidate dopo la nascita del movimento #MeToo e della Women’s March, la marcia politica tenutasi a Washington nel 2017. Ma la situazione non è che sia cambiata di molto: nel 2018 le donne elette alla Camera sono state quattordici, quelle elette al Senato tre. Attualmente, le donne occupano il 24% dei seggi alla Camera e il 25% al Senato, mostrando i limiti di questo tipo di mobilitazione femminile. Seguendo l’esempio delle donne in altre democrazie, gli USA possono far crescere questi numeri e lottare per una visione di democrazia fondata sulla presenza femminile, che è un obbligo a cui il governo è tenuto ad adempiere.

Il caso dell’America Latina è piuttosto eloquente. Nel 1911 le suffragiste messicane inviarono una petizione al presidente chiedendo: «Che anche alle donne, come agli uomini, venisse riconosciuto il diritto di voto e di ricoprire cariche elettive». La maggior parte delle costituzioni dell’America Latina usavano lo stesso linguaggio della Costituzione Spagnola del 1812, che appunto definisce il suffragio sia come diritto di voto che come diritto a ricoprire cariche elettive, proprio per evitare che i non cittadini e i non appartenenti all’élite partecipassero alla vita politica. Questa definizione ispanoamericana di cittadinanza risalente al diciannovesimo secolo ha però reso possibile che le suffragiste del secolo successivo potessero chiedere molto di più del diritto di voto. Infatti, appellandosi alla definizione di cittadini come coloro che possono «eleggere ed essere eletti», le donne latinoamericane hanno impostato la conversazione sui diritti politici in un modo inedito rispetto alle donne statunitensi. Inevitabilmente, la pretesa dell’elettività (definita in maniera controintuitiva “suffragio passivo” dai giuristi) ha posto ostacoli significativi al movimento suffragista latinoamericano. Gli oppositori rifiutarono l’idea che le donne potessero votare (“suffragio attivo”), ma si opposero ancor di più all’idea che potessero ricoprire delle cariche politiche. La Chiesa cattolica uruguayana contestò il suffragio femminile proprio su questi presupposti; un articolo del 1914 appartenente a una rivista cattolica affermava: «Il destino che le donne devono seguire, secondo il volere di Dio, è in contraddizione, dal nostro punto di vista, con l’esercizio delle funzioni politiche in senso più ampio». Tuttavia, con l’espansione del suffragio femminile in tutta l’America Latina dopo la seconda guerra mondiale, le riforme legali stabilirono esplicitamente entrambi questi diritti politici. Il successo dei movimenti suffragisti latinoamericani fu straordinario: nel 1991 l’Argentina passò la prima legge sulle quote rosa dell’era moderna, che prevedeva la nomina del 30% di candidate per la legislatura nazionale. Alla fine del secolo scorso, altri undici paesi latinoamericani adottarono misure simili. Il governo francese spinse questa tendenza ancora di più verso la parità di genere stabilendo che i partiti dovessero candidare lo stesso numero di uomini e di donne. Una riforma del 1999 della costituzione francese decretò: «la legge deve favorire l’uguaglianza tra donne e uomini sia per accedere ai mandati elettorali che per ricoprire cariche elettive». Attualmente oltre 75 Paesi hanno adottato questo tipo di misure. Conosciute come “quote rosa” o “quote di genere”, la maggior parte si concentra sulle donne in quanto candidate, ma alcune riservano una proporzione di seggi legislativi. Le quote rosa si trovano in democrazie avanzate, come la Francia e la Spagna, nelle nuove democrazie, come la Tunisia, e in Paesi che si trovano in una situazione post bellica, come il Ruanda. Si sono inoltre rivelate uno strumento molto efficace: delle cinquanta nazioni che hanno eletto oltre il 30% percento di donne alla Camera o al Senato nel 2019, ventinove lo hanno fatto tramite le quote rosa. Nella maggioranza dei paesi restanti, le quote di genere volontarie adottate dai singoli partiti spiegano il successo delle donne in politica.
Il successo dei movimenti suffragisti latinoamericani fu straordinario: nel 1991 l’Argentina passò la prima legge sulle quote rosa dell’era moderna, che prevedeva la nomina del 30% di candidate per la legislatura nazionale. Alla fine del secolo scorso, altri undici paesi latinoamericani adottarono misure simili
La portata delle riforme elettorali che promuovono la nomina e l’elezione delle donne oggi fa sembrare la pioneristica legge sulle quote di genere dell’Argentina una misura ormai superata. Paesi molto diversi tra di loro, quali Messico, Belgio e Senegal hanno adottato la parità di genere e gli sforzi per promuovere il diritto elettivo delle donne non si fermano certo alle quote rosa. Altre misure prevedono che le donne facciano parte dei consigli d’amministrazione, che le tasse di deposito siano più basse e che abbiano un accesso più facilitato alle campagne di raccolta fondi pubbliche. Queste politiche riflettono l’impegno internazionale per accrescere la rappresentazione femminile in politica. Un tempo usato per tenere la cittadinanza un privilegio riservato agli uomini, il “diritto a essere eletti” è stato fondamentale per garantire la struttura legale e normativa che ha trasformato la politica elettorale.
Prendiamo ora in esame la situazione negli Stati Uniti, anche se l’espressione “eleggere ed essere eletti” presente nella costituzione ibero-americana non si trova in quella statunitense:, alcune leggi federali concedevano il diritto di voto alle donne senza troppo clamore, sia prima che dopo il 1920. I legislatori federali comprendevano il legame tra suffragio attivo e passivo, ma gli sforzi per modificare la Costituzione ed estendere il diritto di voto favorirono degli approcci più prudenti. Quando il XV emendamento estese il diritto di voto agli afroamericani nel 1870, il testo approvato da entrambe le camere del Congresso prevedeva sia il diritto di voto che quello a ricoprire degli incarichi. Eppure, secondo la professoressa di diritto Nicole Gordon, alcuni legislatori non riuscivano a mettersi d’accordo sulla necessità di menzionare a parte il diritto a farsi eleggere o se questo fosse già incluso in quello di voto, senza bisogno di ulteriori specifiche. Inoltre, gli abolizionisti temevano che il divieto di limitazione del voto sulla base di diversi elementi , tra cui razza, patrimonio e nazionalità, costituisse un passo azzardato, e che La Ricostruzione sarebbe stata a rischio se gli stati si fossero rifiutati di ratificare l’emendamento. Dato che il tempo a disposizione non era molto, il Congresso approvò una legge compromesso che non prevedeva più il diritto a essere eletti e proibiva le restrizioni di voto basate solo sulla razza. Il razzismo ebbe un ruolo pesante sul suffragio femminile americano. Infatti, nonostante il XIX emendamento proibisse le restrizioni di voto basate sul genere, esattamente come il XV, non si occupò di affrontare le altre limitazioni. Le legge federale riconobbe la cittadinanza agli indigeni solo nel 1924, per cui il diritto di voto per le donne indigene slittò ulteriormente. Con le leggi Jim Crow del Sud, lo stato federale impose dei requisiti per poter accedere al voto, quali il pagamento di tasse di scrutinio e l’obbligo di passare dei test di alfabetizzazione, che di fatto privarono per decenni le donne nere del sud della possibilità di votare. Allo stesso tempo, come fa notare la storica Nancy L. Cohen, le donne nere americane del nord si organizzarono per candidarsi alle elezioni negli anni successivi al passaggio del XIX emendamento, e in numeri anche maggiori rispetto alle donne bianche. Se teoricamente il suffragio femminile stabilì che le donne potessero candidarsi, ciò non significò che questo accadde automaticamente.

Dopo tutto, la giurisprudenza statunitense interpreta i diritti politici come negativi più che positivi. Il XV e il XIX emendamento si concentrano sostanzialmente su cosa il governo non può fare, come, ad esempio, limitare il diritto di voto sulla base della razza e del genere, anziché su cosa può fare. Il diritto di candidarsi a ricoprire cariche elettive è concepito in maniera simile: i governi statali e locali predispongono delle norme volte a regolare l’accesso alla scheda elettorale, creando delle vere e proprie barriere legali alla presentazione dei candidati stessi. La giurisprudenza statunitense stabilisce che queste restrizioni non possono essere tanto dure da limitare il diritto costituzionale a candidarsi, che comunque non è come affermare che il governo sia tenuto a garantire questo diritto. Negli anni ’60 i tribunali statunitensi iniziarono a ridefinire il diritto alla candidatura senza riferimenti né al suffragio passivo né alla razza e al genere. Nella sentenza Williams v. Rhodes del 1968 la Corte Suprema respinse tutti i pesanti requisiti di firma previsti per garantire l’accesso alle elezioni ai partiti minori. L’anno successivo, nel caso Moore v. Ogilvie, la Corte abolì i medesimi requisiti di firma per i singoli candidati. Nel 1973 il Primo Circuito della Corte d’Appello degli Stati Uniti invalidò un’ordinanza emessa a Cranston, nel Rhode Island, che imponeva le dimissioni ai dipendenti comunali in caso di candidatura alle elezioni. La sentenza afferma che: «Il diritto di candidarsi a cariche pubbliche riguarda due libertà fondamentali: la libertà di espressione individuale e la libertà di associazione». Infine, nel caso Lubin v. Panish del 1974, la Corte Suprema stabilì che gli stati non possono richiedere tasse di deposito a candidati non abbienti, determinando che «il diritto di un partito o di un individuo a votare deve essere garantito». La distinzione nella teoria politica e giuridica tra diritti negativi e positivi è fondamentale per comprendere il suffragio femminile. I filosofi illuministi John Locke e James Mill vedevano i diritti politici come diritti di non ingerenza, vale a dire diritti su cui il governo non poteva intervenire in alcun modo. Questo principio ha ispirato gli autori del Bill of Rights. In parole povere, chiedere al governo di non immischiarsi nelle faccende dei singoli, cosa che fa non limitandone la libertà, è diverso dall’esigere di aiutare attivamente le persone a entrare in politica. La rimozione delle restrizioni all’accesso al voto è negativa e coerente con l’obbligo a non ostacolare. Ciò che potrebbe costituire un diritto positivo, invece, sarebbe agire in maniera proattiva, concedendo più spazio alle elezioni ai candidati di partiti minori o non abbienti. Una concezione di tipo negativo dei diritti politici non era presente solo negli Stati Uniti, ma in gran parte del mondo fino alla fine del ventesimo secolo. Se il processo di democratizzazione stava prendendo piede a livello globale, la rappresentanza politica femminile non sembrava crescere più di tanto; infatti, le donne occupavano il 10,9 % dei seggi alla Camera nel 1975, il 12 % nel 1985 e l’11,6 % nel 1995. Le Conferenze mondiali delle Nazioni Unite sulle donne tenutesi a cavallo tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’90 a Città Del Messico, Copenaghen, Nairobi e Pechino, richiamarono l’attenzione sulla mancanza di rappresentanza femminile nelle dinamiche di potere decisionale.
Queste discussioni risuonarono in tutta l’America Latina. Molte nazioni stavano emergendo da lunghi periodi di guerra civile o dittatura, e i leader di queste transizioni politiche erano consapevoli che la democrazia doveva proteggersi dalle violazioni dei diritti umani causate dai conflitti e dai governi militari. Diventare un Paese democratico, dunque, non significò solo elezioni libere ed eque, ma ricerca attiva dell’uguaglianza e della giustizia per tuttə lə cittadinə. Lə attivistə per i diritti delle donne colsero quest’opportunità, donando nuova vita al concetto di suffragio attivo e passivo. Reintroducendo la formula del “diritto di essere eletto”, spostarono l’attenzione dalle barriere legali, che il suffragio aveva rimosso, alle barriere strutturali che impedivano i diritti politici; uno su tutti, la discriminazione di genere. Rimodellarono i diritti politici come positivi anziché negativi e si concentrarono sul suffragio passivo, affermando che lo stato deve garantire le candidature delle donne attraverso le quote di genere. Lə attivistə spinsero il dibattito oltre la candidatura e verso i risultati elettorali, domandandosi chi effettivamente partecipasse all’assemblea legislativa. Negli Stati Uniti, le femministe si sono impegnate a vincere le elezioni attraverso la creazione di reti di donatori e programmi di formazione per aiutare le candidate a irrompere in quel club per signori che è la politica americana. Lə attivistə latinoamericanə, invece, posero più enfasi sui diritti politici stessi, basandosi su quattro principi fondamentali.
La distinzione nella teoria politica e giuridica tra diritti negativi e positivi è fondamentale per comprendere il suffragio femminile
In primo luogo, pretesero la rappresentazione descrittiva, ovvero la necessità che le assemblee elette assomigliassero ai sistemi politici che presiedono. Studiosə come Hanna Pitkin hanno sottolineato che la funzione stessa dell’assemblea legislativa, cioè far sì che degli individui rappresentino un corpo più ampio di cittadini, implica che la sola geografia, o la rappresentazione territoriale, non possa produrre un corpo legislativo che rispecchi la cittadinanza. Per discutere di rappresentazione descrittiva è necessario introdurre un secondo principio, ovvero l’uguaglianza sostanziale, affinché si possa comprendere la rappresentanza politica intesa come diritto di gruppo, non solo come diritto individuale. Se i cittadini sono considerati tali quando esercitano il diritto a ricoprire le cariche dello Stato, per Aristotele, le donne, così come altri gruppi, non possono essere considerate cittadine se non hanno una loro rappresentanza all’interno delle assemblee, quindi se non esercitano il diritto a candidarsi. Senza una rappresentanza, infatti, le donne godono di un’uguaglianza formale ma non sostanziale, perché nella pratica non godono dei benefici della cittadinanza. La loro assenza dalle assemblee costituisce, quindi, un danno collettivo, poiché non esiste democrazia che funzioni laddove la rappresentanza non è completa. Questi dibattiti sulla rappresentazione descrittiva e sull’uguaglianza sostanziale si riferiscono alle donne in quanto gruppo distinto, considerate quindi non per la comprensione individuale della propria identità, ma tenendo conto delle caratteristiche condivise politicamente rilevanti. I sostenitori e le sostenitrici del principio di rappresentazione descrittiva non affermano che tutte le caratteristiche dei cittadini debbano riflettersi nelle assemblee, ma solo quelle attorno a cui la società costruisce e rafforza il proprio valore. Ad esempio, sicuramente una persona affetta da disabilità ha la possibilità di accedere agli spazi pubblici in maniera diversa rispetto a chi ha i capelli rossi. Il patriarcato ha creato una divisione sessuale del lavoro che ha relegato le donne alle attività domestiche e riproduttive, e sostiene ancora un intero insieme di credenze che le sottopongono alla subordinazione. Queste opinioni, inclusa la convinzione che le donne non siano adatte alla politica, persistono indipendentemente da ciò che ogni singola donna pensa, sente o desidera. Il patriarcato ha dunque conseguenze pratiche nella politica; basti pensare alla sottorappresentazione delle donne nelle cariche elettive anche in assenza di impedimenti legali alla loro candidatura. La studiosa femminista Laurel Weldon lo mette bene in chiaro: le donne possono capire, dare priorità o identificarsi con la categoria “donne” in una miriade di modi, ma la loro esistenza come gruppo politicamente rilevante è un “fatto sociale”. Le rivendicazioni per una rappresentazione descrittiva basata sui “fatti sociali” portano al terzo principio: il diritto alla rappresentanza politica garantisce il diritto al potere decisionale. Le assemblee legislative rappresentano il corpo politico per una ragione: prendere decisioni che riguardano ogni membro della società.
Il patriarcato ha dunque conseguenze pratiche nella politica; basti pensare alla sottorappresentazione delle donne nelle cariche elettive anche in assenza di impedimenti legali alla loro candidatura
La Legge per la promozione dell’uguaglianza sociale delle donne redatta nel 1990 in Costa Rica includeva un articolo che stabiliva che ogni partito politico nominasse metà donne e metà uomini. L’allora viceministra della cultura Mimi Pardo sentenziò: «Se siamo il 50% della popolazione, beh, allora dobbiamo avere il 50% del potere politico» Ai tempi questa misura non fu approvata (le quote rosa sarebbero entrate in vigore nel 1996 e la parità nel 2009), ma le lotte delle donne costaricane non caddero nel vuoto; infatti, per tutto il secolo scorso, i vertici dei leader europei firmarono accordi a sostegno della parità di genere. Nel 2003 il Consiglio d’Europa ha ufficialmente sollecitato la partecipazione equilibrata di uomini e donne al processo decisionale; stessa raccomandazione suggerita dalla Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina e i Caraibi nel 2007. In Francia i sostenitori e le sostenitrici della parità dichiararono che i principi repubblicani sulla cittadinanza universale si applicavano storicamente solo agli uomini e che la parità costituiva un’azione necessaria per le donne. La studiosa Éléanore Lépinard sostiene che tali argomentazioni indicavano «una nuova potente definizione normativa dell’uguaglianza di genere come condivisione di potere e presenza equa stava prendendo piede». Attualmente, oltre alla Costa Rica, sei paesi dell’America Latina, insieme a una ventina di altri stati in tutto il mondo, hanno adottato la parità di genere. Considerare la rappresentazione sia come presenza che come potere costituisce il quarto e ultimo principio: la giustizia. A meno che le donne non siano intrinsecamente inadatte al governo, l’unica spiegazione per la sovrarappresentazione maschile è l’esclusione sistematica delle donne. Nel 1998 la teorica politica Anne Phillips si è chiesta: «Con quale superiorità “naturale” di talento o esperienza gli uomini rivendicano il diritto di dominare le assemblee?» Naturalmente, le rivendicazioni basate sulla giustizia non sono molto popolari nell’ambito della politica elettorale. Il dibattito per le quote di genere riflette la convinzione che il patriarcato costituisce un’ingiustizia storica che avvantaggiava gli uomini e causava danni materiali alle donne. Ammettere le disuguaglianze causate dal sistema patriarcale, richiederebbe ai leader politici, per lo più uomini, di rinunciare alle loro posizioni per ristabilire un equilibrio. Le candidature restano fini a se stesse se non si vincono le elezioni, e nonostante alcuni paesi abbiano abilmente ampliato il numero totale di seggi grazie alle quote rosa, nella maggior parte dei casi sarebbe necessario che un numero significativo di uomini si facesse da parte.
Questa traduzione è una prima parte dell’articolo pubblicato su The Boston Review da Jennifer Piscopo, docente di scienze politiche alla University of California.