L’OCCIDENTE E IL COMPLESSO DEL SALVATORE
A seguito della presa del potere da parte dei Talebani in Afghanistan il mondo occidentale si strugge sulla sorte delle donne afgane. Ma l’obiettivo non è mai stato tutelare le donne, quanto piuttosto la pratica di politiche neocoloniali.
Dopo vent’anni di conflitti, alla fine i Talebani sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan. Questo ha fatto alzare in tutto il mondo voci di allarme riguardo la sicurezza delle donne afgane, essendo i talebani noti per la loro discriminazione e oppressione sistemica. Tuttavia le grida di protesta delle femministe vengono sovrastate da una sola voce: quella dell’Occidente e, in particolare, quella dell’America. Il pericolo di una deriva retorica di stampo imperialista sembra inevitabile: infatti, la narrazione dei media occidentali lega a doppio filo il drammatico peggioramento della condizione femminile con la ritirata dell’esercito americano da Kabul.
In un articolo della CNN, intitolato L’America ha abbandonato le donne dell’Afghanistan, si legge: «[…] ma una cosa è diversa ora: le donne afgane hanno assaggiato la libertà negli ultimi vent’anni e si sono impegnate nella ricostruzione del Paese». Nonostante l’articolo renda conto dell’appropriazione a fini imperialistici delle lotte femministe locali da parte degli USA, rimane fortemente ancorato all’idea che la presenza americana in Afghanistan abbia effettivamente migliorato la condizione femminile nel Paese, riportando l’immagine popolare che si ha in Occidente. Si fa presto quindi ad attribuire il ruolo di salvatore al governo americano e ai suoi cittadini. Seguendo questo filo logico, è proprio il governo americano ad avere la responsabilità di liberare le donne afgane e salvarle dai Talebani, un’idea mistificatoria nonché pericolosa.
La tesi propugnata dall’articolo trova le sue radici nel fatto che solitamente si considera il femminismo come un prodotto della cultura occidentale. Secondo questo punto di vista, i movimenti femministi presenti nei paesi del terzo mondo diventano solo una pallida imitazione di quelli occidentali e di conseguenza, quando questi ultimi cercano di deviare dal percorso già tracciato in Occidente, fanno fatica a trovare una legittimazione. Si è come formata una regola non scritta secondo cui è solo l’Occidente che può decidere le forme e le caratteristiche del femminismo, non l’Oriente. La donna occidentale diventa l’unità di riferimento da prendere in esame, solo le sue esperienze possono dettare il corso del femminismo.
Tutto ciò risulta evidente nel modo in cui le idee occidentali vengono trasportate nel resto del mondo: non vengono alterate in alcun modo per adattarle a un diverso contesto culturale. Il femminismo liberale, che ha inesorabilmente sposato il consumismo e l’empowerment individuale e individualista, ne è una chiara dimostrazione.
La divisione del mondo in dicotomie spaziali fra Occidente e Oriente, Nord e Sud, primo e terzo mondo sono più di mere categorie linguistiche, derivano da una cultura che definisce l’Occidente in termini di negazione: l’Occidente non è l’Oriente, l’Occidente non è l’Altro. L’Occidente è sinonimo di democrazia, diritti umani, libertà, femminismo e di ogni qualità che uno Stato nazione debba aspirare ad avere. L’Oriente, invece, è sottosviluppato, povero, autoritario e violento. Di conseguenza, è l’Occidente ad avere la missione di trasportare i buoni valori occidentali negli stati orientali, sta dunque all’Occidente civilizzare gli altri popoli. Questa “missione” è anche nota come il fardello dell’uomo bianco.
Da questo scaturiscono due dirette conseguenze: la prima è che la scusa della missione civilizzatrice è stata usata per secoli come giustificazione alla colonizzazione del Sud del mondo, che al giorno d’oggi viene nascosta dietro la facciata dei diritti umani e della democrazia e spesso conduce al neoimperialismo. La seconda è che l’associazione tra l’Occidente e i diritti delle donne crea un ciclo infinito in cui per implementare i valori femministi si debba per forza aderire al modello culturale occidentale.
Ci sono due principali scuole di pensiero che si occupano di questo problema: il femminismo transnazionale e il femminismo terzomondista.
Chandra Talpade Mohanty ha fatto conoscere al grande pubblico il movimento femminista terzomondista col suo saggio Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti (edito nella versione italiana da Ombre Corte), in cui fa una feroce critica al femminismo bianco e occidentale che è solito rappresentare l’oppressione femminile nel terzo mondo come una versione estremizzata dell’oppressione della donna bianca: «Aderendo alla concezione imperialista secondo cui le culture del terzo mondo sono intrinsecamente retrograde e patriarcali, le femministe bianche vedono l’oppressione delle donne del terzo mondo come semplicemente peggiore della propria».
È vero che la categoria di genere è necessaria per comprendere l’oppressione delle donne, ma quando quel corpo interagisce con un diverso sistema sociale spesso vengono generati nuovi schemi di oppressione. Ciò nonostante, quando l’oppressione di una donna del terzo mondo è vista attraverso l’esperienza della donna occidentale, l’oppressione della prima è misurata solo in paragone a quella della donna bianca. Comprendere il contesto geopolitico e culturale locale per poter analizzare l’esperienza delle donne nel terzo mondo, e quindi arrivare ad avere un nuovo paradigma, è basilare nel femminismo terzomondista.
Il femminismo terzomondista si è ritrovato all’interno di diverse lotte indipendentiste contro il potere coloniale o imperiale, infatti, l’anti-imperialismo è uno dei valori alla base di questo movimento. Ciò ha spesso attirato critiche in quanto la donna sarebbe costretta prima a confrontarsi con altri tipi di oppressioni e solo in un secondo momento con quella di genere. Anche l’utilizzo del termine “terzo mondo” è stato criticato, Mohanty stessa ha riconosciuto i pericoli di istituzionalizzare termini come Occidente e terzo mondo.
Il femminismo transnazionale, al contrario, ha guadagnato consensi in quanto la restrizione operata dai territori nazionali, promossa dal femminismo terzomondista, impediva «una prassi femminista comparativa e relazionale transnazionale come risposta ai processi globali di colonizzazione». Nell’introduzione al saggio Scattered Hegemonies: Postmodernity and Transnational Feminist Practices (Egemonie sparse: pratiche femministe postmoderne e transnazionali), le curatrici Grewal e Kaplan pongono le fondamenta del femminismo transnazionale. Ma, come avviene anche nel femminismo terzomondista, rimane forte l’assunto che cercare di comprendere l’oppressione solamente attraverso il genere appiattisce le diverse esperienze delle donne nel mondo.
Il femminismo transnazionale riesce dove il femminismo terzomondista fallisce: connette i contesti storici particolari delle donne nel Sud del mondo alle egemonie economiche internazionali. Le femministe transnazionali provano a capire le condizioni materiali che definiscono la vita delle donne a livello globale e, di conseguenza, offrono una critica dei modelli socioeconomici neoliberali e delle egemonie culturali. Si occupano, quindi, dello studio comparativo dei diversi sistemi patriarcali e di creare reti solidali transnazionali.
Adottando questo punto di vista, quindi, l’egemonia economica neoliberale viene identificata come la principale minaccia per le donne del terzo mondo: la deregolamentazione del mercato e della finanza, assieme a istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale e l’avanzata delle multinazionali costituiscono un grosso pericolo per le donne. Infatti, lo sfruttamento del lavoro e la povertà sono dirette conseguenze del modello globale neoliberale.
Il femminismo transnazionale cerca di formare reti di solidarietà fra le donne che vivono sotto diversi sistemi patriarcali ma che sono unite dallo sfruttamento del sistema economico globale. Il femminismo transnazionale, quindi, non rigetta le istanze del femminismo terzomondista, ma piuttosto le amplia.
Rifiutare la nozione secondo cui l’Occidente è l’unico detentore delle pratiche femministe sia in termini di teoria che di attivismo, è una parte essenziale del femminismo decoloniale. Se smettessimo di adottare la visione del mondo occidentale, ne scopriremmo una che soddisferebbe meglio i nostri bisogni e ci aiuterebbe maggiormente a difenderli.
Questo processo è un passo cruciale da compiere nella liberazione delle donne del terzo mondo, del Sud globale e dell’Oriente.
Questo articolo è stato scritto da Halima Zoha Ansari e pubblicato su Feminism in India potete leggere la versione originale in inglese qui. Halima Zoha Ansari è laureata in storia al Lady Shri Ram College for Women, ha lavorato sia con piccoli partiti politici che con grosse organizzazioni internazionali. Le sue aree di interesse sono principalmente la politica estera e la teoria femminista.