I limiti di Blonde
Marilyn, interpretata dalla candidata agli Oscar Ana de Armas, prende vita solo in quanto vittima, oggetto del desiderio e madre mancata.
Ancor prima della sua uscita, Blonde, un film originale Netflix, ha risvegliato un crescente interesse sulla vita controversa di Norma Jean Baker, nome di battesimo di Marilyn Monroe. Nel tentativo di desessualizzare la protagonista, la pellicola fa esattamente il contrario.
Negli anni ’50 dilagava l’opinione che l’identità di un’attrice fosse spesso plasmata dalla natura pubblica della professione e dall’esibizione del corpo che questa comportava per le donne. Per i mass media il caso di Marilyn Monroe è diventato uno degli esempi per eccellenza della sessualizzazione dell’identità di un’attrice e del suo conseguente sfruttamento, generando una narrazione fondata sul vittimismo.
Il regista Andrew Dominik cade nella classica trappola voyeuristica di dipingere Monroe come la «Bionda», vittima degli uomini potenti di Hollywood, fallendo sostanzialmente nell’evidenziare le differenze tra Norma Jean e Marilyn Monroe. Il problema che sorge quando si riflette sulla vita dell’attrice nasce dalla connessione intrinseca tra attrice-prostituta molto diffusa durante l’Età d’oro del cinema.
Questa idea serviva a separare le donne «rispettabili» da quelle «degenerate». Le stesse prostitute appartenevano a una categoria discorsiva, volta a delineare l’identità di una donna che si collocava ai margini di una società «rispettabile». Per Marilyn Monroe, questo concetto coincise con la formazione della sua identità e portò a una estrema sessualizzazione delle sue caratteristiche. Dalla voce all’aspetto fisico, Marilyn divenne un feticistico oggetto del desiderio per il pubblico: la «bionda esplosiva». Questo legame indissolubile tra attrice e prostituta ha spesso reso impossibile il riconoscimento delle abilità creative che permettevano alle donne di crescere professionalmente nel reame pubblico dominato dagli uomini.
Il ritratto di Marilyn da parte di Dominik mostra un lato un po’ timoroso, vulnerabile e ingenuo della protagonista, alla ricerca di un posto sotto i riflettori. Lo sguardo del regista accresce la correlazione attrice-prostituta con cui Marilyn ha forse dovuto confrontarsi durante la sua carriera.
Attraverso l’oggettificazione di Norma Jean, Blonde la modella, nutre e redime. Caratterizzato da un’interpretazione indubbiamente stellare di Ana De Armas, il film Netflix appiattisce i dettagli della vita e della carriera della diva, presentando un viaggio monotono di tre ore sulla totale umiliazione dell’attrice. Supponiamo che la vita di Monroe fosse davvero unicamente caratterizzata da costante paura, sessualizzazione e vulnerabilità e diventa difficile spiegare l’eccellente andamento della sua carriera, la formidabile presenza in pubblico e l’assoluta impeccabilità delle sue interpretazioni.
Il nesso attrice-prostituta
Blonde affronta il tema dello «sguardo» maschile in modo molto aggressivo e assertivo, facendoci di tanto in tanto ascoltare le performance canore della vera Marilyn, dalle quali emerge la rivoluzione sessuale degli anni ’60 di cui l’attrice era emblema. La sottostante equiparazione tra attrice e prostituta plasmò in modo subliminale la carriera hollywoodiana della diva.
L’idea di un legame logico tra attrice e prostituta si è insediato nell’opinione pubblica già con le attrici teatrali a causa della natura stessa della professione per la quale è essenziale la visibilità del corpo femminile nella formazione dell’identità delle attrici. Questo legame spesso riduce le differenze tra le due professioni, screditando ulteriormente il lavoro creativo delle attrici e disumanizzando le sex workers.
Il residuo di questo pensiero sociale ha plasmato discorsivamente l’identità professionale di Monroe: le attrici sono considerate solo esseri sessuali che si collocano al di fuori della «sfera domestica». La prospettiva di Dominik è quella stereotipata di una Marilyn servile e isterica, priva di talento artistico.
Come scrive Priscilla Alexander, questo ci mostra in parte il pensiero pubblico dell’epoca: «È meglio che una donna non esplori liberamente la propria femminilità e sessualità perché questo la espone al rischio di essere identificata come “puttana”». L’attrice e la prostituta erano entrambe figure sessualizzate, il cui lavoro veniva svalutato e le cui esibizioni incarnavano un comportamento sessuale deviante che permaneva nel pensiero sociale anche all’epoca di Monroe.
Questa interconnessione declassa il lavoro dell’attrice e della prostituta al rango di illegittimi, spingendoli al di fuori dell’ambito della società «rispettabile». Allo stesso tempo, sminuisce l’autosufficienza economica e l’agiatezza delle attrici.
Negli anni ’60, nonostante fosse l’attrice di punta degli Stati Uniti d’America, Monroe lottò per essere apprezzata il suo lavoro e la sua bravura invece che per i suoi attributi sessuali assoggettati alla prospettiva maschile. Il ritratto di Dominik ricolloca Monroe in questa logica, privandola dei meriti dovuti alla sua attività, abilità e talento.
In questo film, non è più la «bionda stupida» degli anni ’60, ma viene comunque dipinta come semplice vittima di circostanze derivanti dalla sua evidente sessualizzazione nella sfera pubblica. Joseph Roach scrive che le celebrità hanno due corpi: uno che perisce con la morte, il «corpo naturale», e l’altro che continua a vivere sotto i riflettori, il «corpo politico». Il legame attrice-prostituta ha marchiato il «corpo naturale» di Monroe negli anni ’60, e l’adattamento di Dominik inietta il suo «corpo politico» odierno con i residui di questa dicotomia.
Catturando (in)consapevolmente questa fusione, il regista concettualizza Marilyn Monroe recidendo tutti gli altri lati emotivi di Norma Jean Baker. In una scena in cui la donna è al cinema con Charles Chaplin Jr. (Xavier Samuel) e Edward G. Robinson Jr. (Evan Williams), assistiamo alla sua performance sul grande schermo e al contempo al suo coinvolgimento in un atto sessuale. In questo modo viene a rafforzarsi la connessione tra l’atto recitativo e la flagranza sessuale, che finisce per distogliere l’attenzione sulla performance di Monroe sullo schermo e la svilisce.
Sebbene Blonde sia in parte romanzato e in parte basato sul corposo romanzo di Joyce Carol Oates, anziché riuscire a demolire l’idea di Marilyn Monroe come sex symbol, la instilla ancora una volta. Blonde ridimensiona Monroe come attrice e artista rendendola eccessivamente suscettibile agli uomini di potere, risultando in un’oppressione continua e sistemica a cui le era difficile sottrarsi.
Questa visione della carriera di Monroe riflette la connessione attrice-prostituta latente nel pensiero sociale e fa sì che Andrew Dominik consideri Monroe una vittima sessuale piuttosto che una survivor, un’attrice e una produttrice.
Il tropo salvifico della maternità
Blonde cerca costantemente di rappresentare la sicurezza e la levatura di Marilyn come un comportamento di facciata agli occhi del pubblico, per nascondere la sua fragile interiorità. Dominik riflette scrupolosamente su questa donna fragile, che chiede costantemente di essere salvata dagli uomini o dalla maternità.
Il tropo della maternità radicata nel trauma infantile gioca un ruolo essenziale nella seconda metà del film, come l’unica e inevitabile possibilità di redenzione capace di salvare la protagonista dal ricadere definitivamente nella categoria di attrice-puttana.
Dopo la prima interruzione di gravidanza, seguita da un aborto spontaneo, Dominik ci mostra solennemente il profondo rimorso della diva, avvolto dal costante desiderio di diventare madre. Avendo fallito il suo obiettivo biologico, Monroe perde completamente il controllo sulla realtà. Donald Spoto scrive che l’attrice era assolutamente consapevole della sua figura pubblica, sebbene il trauma infantile avesse radicato in lei un profondo senso di inferiorità; la sua resilienza e la costante fatica passarono inosservati.
Marilyn si prodigò incessantemente per cause sociali e umanitarie, intrattenendo spesso le truppe in Corea con le sue notevoli esibizioni. Tutti questi eventi non compaiono nemmeno di sfuggita nell’adattamento di Dominik.
Dopo essere stata aggredita sessualmente dal Presidente, Blonde ripropone la scena in cui viene mostrato il feto. Blonde presenta un’interpretazione controversa dell’interruzione di gravidanza di Monroe e una manifesta rappresentazione del senso di colpa materno che, alla fine del film, la travolge, portandola alla pazzia.
Il nesso attrice-prostituta ha perdurato nella società a un livello più metaforico rispetto agli anni ‘50 e ‘60, demonizzando di fatto le categorie professionali femminili. Tuttavia, Blonde evidenzia clandestinamente il pericolo di questo pensiero sociale, poiché la lente di Dominik raramente si allontana dalla narrazione del vittimismo sessuale e dall’idea di quanto disperatamente Marilyn Monroe dovesse essere «salvata» dagli uomini di Hollywood.
In Blonde il regista rivela quasi deliberatamente la paura e la fragilità dell’attrice impedendole di incarnare qualsiasi altra identità. Il film riesce a dipingere Marylin solo come figlia o come donna in cerca di ricostruire l’amore filiale in tutte le sue relazioni, oppure all’incapacità di diventare madre.
Tradizionalmente, i ruoli di ogni donna «rispettabile» sono quelli di figlia, madre e moglie premurosa; Blonde porta avanti proprio questo concetto narrando una Monroe camuffata in una storia redentrice e controversa. Blonde racconta tragicamente Marilyn Monroe esortandola a essere ricordata per le atrocità subite anziché per i trionfi.
L’articolo, tradotto per noi da Chiara Bertoldo, è stato pubblicato su Feminism In India da Twisha Singh. Potete trovare la versione originale qui.