CHIAMAMI COL MIO NOME
Deadname e misgendering, perché risvegliano il trauma nelle persone trans.

Tutti almeno una volta durante la transizione si sono sentiti dire questa cosa: «Devi darci tempo. È molto difficile abituarsi», mi ha detto mia suocera a un anno dall’inizio del mio percorso. Spesso usa il mio vecchio nome nome o pratica misgendering, ossia mi attribuisce il genere sbagliato, mentre gioca con mia figlia. Dopo aver trascorso diverso tempo da mia suocera, mia figlia ha cominciato a usare il nome e i pronomi sbagliati anche in casa [N.d.T. In inglese il genere viene dato dai pronomi personali, mentre in italiano per esprimere il genere si usano le desinenze]. Dopo un’altra visita, mi sono dovuta isolare nella mia camera: ero a pezzi, perché un posto che per me doveva essere sicuro, era diventato un campo minato fatto di invisibilizzazione, disforia e trauma.
«Mi dispiace di non aver aggiornato il documento prima di farlo girare per tutta la facoltà», mi ha detto un collega dopo aver usato il mio vecchio nome di fronte all’intero dipartimento universitario. So che cercano di sostenermi, ma il loro supporto spesso non sembra incondizionato. Si ricordano che sono una donna trans di nome Theresa solo quando sono io a rammentarglielo, ma nessuno di loro ha fatto il minimo sforzo per cambiare le prassi lavorative e prendere atto della mia situazione, anche dopo 15 mesi durante i quali ho chiesto ripetutamente di correggere i miei riferimenti sui registri.
«Mi dispiace davvero tanto, Tess. Non mi rendo proprio conto di farlo. A volte mi scappa», mi dice mia madre, che mi ha sempre sostenuto e dimostrato affetto durante la transizione, a tal punto che mi commuovo a scriverne. Le scappa principalmente quando parla della mia infanzia, e lo so che è mortificata quando succede. È riuscita a cambiare la prospettiva sulla persona che sono oggi ma, per lei, riuscire a farlo sulla persona che ero in passato è di gran lunga più difficile. Anche se non ho alcun dubbio sul fatto che mi voglia bene, non riesco a controllare la mia reazione quando questo accade.
«E mio padre mi ha guardato e mi ha detto sorpreso: “Stai davvero piangendo solo perché ho usato il maschile?” Sapevo che non l’aveva fatto apposta, ma mi ha fatto soffrire», mi ha raccontato un’amica. Una di quelle fortunate. I suoi genitori la amano e supportano, hanno accettato la sua transizione e hanno passato gli ultimi anni ad adattarsi al fatto di avere una figlia e non un figlio. Tuttavia, anche i genitori più amorevoli possono sbagliare, e sebbene sappiamo che non lo fanno apposta, piangiamo lo stesso
«Mi dispiace Dottoressa Tanenbaum. Non possiamo cambiare le citazioni con il suo nome, dobbiamo proteggere anche i diritti degli altri autori», mi è stato detto dal personale dell’università per cui lavoro, dove vengo citata centinaia di volte con un nome obsoleto, che rivela la mia identità precedente a chiunque mi incontri, mettendo a repentaglio la mia sicurezza e il mio sostentamento. Ho scritto molti saggi riguardo all’eliminazione del deadname nei testi accademici, ma non ho mai spiegato davvero quanto sia doloroso vederlo citato dai miei studenti e dalle mie studentesse, o quando Google Scholar mi avvisa che le persone si riferiscono ancora a me al maschile… quell’identità passata nella quale non mi riconosco più. Per chi non lo sapesse, quando si parla di deadname ci si riferisce al nome assegnato alla nascita che non riflette l’identità di genere delle persone trans.

Odio essere così vulnerabile a quelle parole. Odio che la mia vulnerabilità si metta tra me e la mia famiglia, che minacci la relazione di mia figlia con i nonni e mi impedisca di poter parlare con mia madre della mia infanzia. Odio non sentirmi sicura sul posto di lavoro, sebbene sia conscia che colleghə e allievə mi supportano. Odio vedere che anche altre persone trans debbano sopportare tutto questo.
«Non puoi semplicemente… Non so, scegliere di non farti scalfire? Non sarebbe più semplice?», mi dice mia moglie, che non sopporta vedermi soffrire e che vuole trovare un modo per farmi stare bene. Sa meglio di chiunque altro quanto sia dura la mia reazione quando vengo chiamata con il mio vecchio nome o subisco misgendering. Le volte in cui le persone si confondono, non faccio mai trapelare quanto mi faccia male. Aspetto finché non sono sola (o, ultimamente, dopo aver chiuso Zoom), prima di scoppiare a piangere. Ma lei sa cosa sta succedendo quando all’improvviso mi blocco, smetto di parlare o lascio la stanza senza dare spiegazioni. Ha dovuto rimettermi in sesto fin troppe volte per non sapere che se potessi ovviamente sceglierei di stare bene.
Anche se non viene fatto in modo intenzionale, quando ci si rivolge a noi con il nome o il genere sbagliato fa male in modi che la maggior parte delle persone cisgender, coloro la cui identità di genere corrisponde al sesso biologico, non riusciranno mai a capire. E non mi sto riferendo a quando queste azioni vengono attuate nei media come atti di violenza e cancellazione intenzionale da parte di TERF, persone transfobiche, ignoranti o crudeli. Parlo di quando quelle persone con le quali dovremmo sentirci al sicuro ci fanno del male senza farlo apposta e senza cattiveria. Non racconto spesso della mia esperienza emotiva, perché mi ci è voluto molto per capire la mia reazione quando si riferiscono a me al maschile o mi chiamano col mio nome da uomo.
Come molte persone, anche io non capivo come un nome potesse causare così tanto dolore. Prima di cambiare sesso, l’idea che un semplice nome potesse far sorgere un Trauma con la T maiuscola mi sembrava istrionico, un’esagerazione. Pensavo che le persone trans che si lamentavano di essere chiamate con il loro deadname o di subire misgendering, se la prendessero a male per un errore semplice e innocente. Sono solo parole, dopotutto. Come possono essere così dannose?

Ma noi non scegliamo i nostri traumi.
La prima persona a cui dobbiamo insegnare a usare il genere corretto e il nome giusto siamo noi stessi. Accettare di essere trans spesso significa affrontare numerose lotte interiori e dubbi prima di riuscire a dar voce ai propri sentimenti. Per moltə di noi, scendere a patti con il nostro genere richiede ore di terapia, riflessione e insicurezze. Ho dovuto affrontare la mia transfobia interiorizzata prima di accettarmi come persona trans, un processo che mi ha richiesto quasi quarant’anni. In quei primi giorni della mia transizione, essere chiamata con il nome e i pronomi giusti era un’ancora di salvezza. I nuovi nomi che ci scegliamo sono i primi significanti esterni della nostra identità e hanno un valore profondo, poiché vengono rivestiti di tutte le speranze e paure che abbiamo riguardo la nostra transizione.
All’inizio del mio percorso, scrissi in merito alla mia esitazione a usare il termine deadname per riferirmi al mio nome precedente. Sembrava una crudeltà ingiustificata nei confronti delle persone che amavo e che mi amavano, dichiarare che la mia identità precedente era morta. Ma da allora molte cose sono cambiate. Più andavo avanti, più mi dissociavo da quel guscio che avevo indossato per quarant’anni. Il processo di dissociazione è stato doloroso e involontario, ma è stato il risultato di qualcosa di bellissimo e meraviglioso.
Finalmente, cominciavo a vedermi sotto una luce positiva e anche gli altri mi vedevano per ciò che ero. Stavo scoprendo la sensazione di esistere davvero, mi sentivo completa, umana. Stavo scoprendo com’era essere qualcuno che si sentiva degno di essere amato e capace di amare gli altri. Dentro di me, ho trovato quella persona che si era nascosta nell’oscurità per tutta la mia vita.
Nella sigla di The Unbreakable Kimmy Schmidt c’è una scena in cui la porta del bunker sotterraneo, nel quale è stata imprigionata sin da ragazzina, si apre, qualcuno le tende una mano e lei emerge, sbattendo le palpebre alla luce del sole per la prima volta dopo anni. Ci si sente proprio così quando finalmente si affronta il mondo come sé stessə, dopo essere statə nascostə e repressə per anni. Il sole è accecante, ma la sensazione che ti regala questa ritrovata libertà è indescrivibile.
«Finalmente, cominciavo a vedermi sotto una luce positiva e anche gli altri mi vedevano per ciò che ero. Stavo scoprendo la sensazione di esistere davvero, mi sentivo completa, umana. Stavo scoprendo com’era essere qualcuno che si sentiva degno di essere amato e capace di amare gli altri. Dentro di me, ho trovato quella persona che si era nascosta nell’oscurità per tutta la mia vita.»
Prima della transizione, non avevo alcun metro di confronto. Pensavo che tuttə provassero la mia stessa sensazione di straniamento. Ero invisibile. Le persone vedevano e sapevano che quella era una barriera che mi ero creata per proteggere la mia parte più vulnerabile. Nascosta dietro una maschera, mi ero convinta che valeva la pena non essere vista in cambio della sicurezza che mi dava quella recita. Solo quando sono stata riportata in vita dalla transizione, ho capito quanto mi ero persa. Ho sofferto tanto prima di fare coming out, ma quel dolore mi era invisibile. Un rumore di fondo. Non mi ero mai accorta che quella cacofonia sovrastava tutto il resto.
Quando la transizione ha messo a tacere quel dolore, sono stata in grado di sentire. Quando ho deposto l’armatura ho scoperto di essere in una prigione. C’è voluta la transizione per cominciare a guarire.

Ma quella guarigione ha un prezzo.
Le cose che mi ricordano il mio difficile passato fanno riaffiorare tutti quegli anni in cui ero invisibile (persino a me stessa) per poi farmeli crollare addosso. Torno di nuovo invisibile. La prigione della mia vecchia identità la porto ancora con me. E se prima serviva per farmi sentire al sicuro, ora mi ricorda quanto fosse terribile quell’oscurità.
Il più delle volte posso dimenticarmi di questa zavorra. Non sono più così triste come allora. Mi sento me stessa. Ma quando qualcuno pronuncia quel nome, o usa i pronomi sbagliati, vengo risbattuta in quella prigione.
Quando succede, ho una reazione fisica.
Una reazione che va oltre il mio controllo.
La vista si offusca, è sfocata, e non riesco a percepire nulla attorno a me.
La pelle suda.
Il cuore corre all’impazzata.
La gola mi si stringe.
Le orecchie fischiano.
Non riesco a parlare, o pensare, all’inizio non riesco nemmeno a piangere.
Devo uscire. Nascondermi. Trovare un posto sicuro e ricordarmi che sono libera, che non sono più quella persona. Non sono mai stata davvero quella persona.
Per descrivere l’esperienza di venire chiamatə con il proprio deadname o di subire misgendering uso la parola “Trauma” perché è quella più corretta e precisa per descrivere cosa mi accade quando le persone “si confondono”.
Mi ferisce, anche se non c’è l’intento di ferirmi.
Non mi piace che questo capiti a me.
Odio trovarmi in difficoltà nelle riunioni di dipartimento perché un collega ha lo stesso nome che avevo prima. Non è colpa sua, ma ogni volta che qualcuno lo chiama il mio cuore si ferma. Odio che quando i miei studenti e le mie studentesse prendono l’iniziativa per fare qualche ricerca extra abbiano molte probabilità di trovare e citare il mio necronimico. Il mio lavoro è compromesso se sto cercando di risolvere un trauma personale.
Mi è difficile sentirmi a mio agio e al sicuro con colleghi e colleghe e con la mia famiglia quando non capiscono di dover sforzarsi almeno un po’ per proteggermi. Sembra quasi che il mio essere trans debba essere un peso che sono costretta a portare da sola, una seccatura per le persone che mi circondano. Ed è proprio questo il problema, non dovrebbe essere una seccatura avere questo tipo di attenzione nei confronti delle persone trans nelle nostre vite. Voglio solo poter trascorrere le mie giornate senza il rischio di rivivere di nuovo il mio trauma solo perché qualcuno non comprende quanto profondamente certe parole mi possano ferire.
Quindi cosa può fare una persona cisgender che fatica a usare genere e nome corretti delle persone trans nella sua vita? Voglio darvi il beneficio del dubbio e pensare che vogliate davvero fare di meglio, che non stiate costringendo intenzionalmentele persone con cui lavorate, amicə e parenti trans a rivivere episodi traumatici, facendolə sentire insicurə, invisibili e a disagio.
Il primo passo è muoversi verso un’affermazione attiva delle loro identità e non una semplice accettazione passiva. Molti non capiscono di doverlo fare. Dire «Ci sto provando» non fa alcuna differenza se non ci si prova davvero. Penso che molte persone cisgender non capiscano che non ci si può aspettare che costrutti sociali radicati cambino per caso. Prima o poi si deve agire per mettere le cose al loro posto, deve essere intenzionale.

E questo vi richiederà di fare un vero e proprio sforzo.
Ecco come potete comportarvi in caso continuiate a “confondervi”: prendetevi del tempo ogni giorno, la mattina, per pensare profondamente ai pronomi, ai nomi e al genere della vostra famiglia trans per almeno 5 minuti, finché non diventano automatici. Ci potrebbero volere alcune settimane. Potrebbe sembrare una fatica, ma è un piccolo gesto per poter supportare le persone trans nelle vostre vite, e dimostrare che le accettate e tenete a loro.
Un’altra cosa che potete fare: se avete un qualsiasi documento che contiene il deadname di una persona trans, lo potete aggiornare. Se non è essenziale cancellatelo. Se invece è necessario o vi è un legame affettivo, allora correggete il nome. Questo include post sui social, lettere, file, siti web e metadati collegati a quella persona. Ci vorrà tempo. Ma è un piccolo lavoro se confrontato a quello che le persone trans a voi care stanno attraversando per cambiare i loro documenti.
Capisco che questo possa essere doloroso anche per voi. Vedo quanto faccia male a mia madre lottare con la nuova consapevolezza del dolore che ho provato prima della transizione. Nessun genitore vorrebbe vedere i propri figli soffrire. Non posso risparmiarle la sofferenza di sapere che sua figlia ha passato quarant’anni a nascondersi dal mondo, ma posso aiutarla a comprendere come evitare che il trauma si riproponga.
La transizione non è un’operazione a cui si sottopone solo la persona trans: è un processo per tutte le vite che vengono toccate da quella persona. Chi si trova più vicino al centro della transizione ha molto più lavoro da fare e molto più potere di ferire rispetto a chi si trova nelle zone più periferiche. Ma sono le persone più care quelle che possono fare molto per aiutare amicə, colleghə e familiari a superare il trauma.
Mia madre ci sta lavorando. Si vede. Non è facile, e per lei è più difficile che per chiunque altro riprogrammare le memorie che ha di me, ma lo sta facendo. I miei colleghi e le mie colleghe stanno pubblicando documenti corretti e hanno cominciato a revisionare i propri file. I genitori della mia compagna le hanno inviato una meravigliosa lettera riguardo ai loro sforzi per correggersi. E lentamente ma senza dubbio, anche la comunità editoriale sta cominciando a migliorare il proprio approccio ai deadname. Ogni giorno, la prigione della mia identità precedente recede sempre di più verso il dimenticatoio. Sto vivendo da meno di due anni senza la maschera, ma la mia nuova identità è già più forte, più coraggiosa e più libera di quanto non lo fosse il mio vecchio guscio.
Questo articolo è stato pubblicato su Medium e potete leggere la versione originale qui. L’autrice dell’intervista è Theresa Jean Tanenbaum, insegnate di informatica all’Università di Irvine in California È anche un’artista, una game designer e sta sviluppando un sistema di realtà virtuale che possa trasformare il modo in cui sperimentiamo l’arte.