BABA YAGA È LESBICA
La strega, protagonista di molte leggende del folklore slavo, simboleggia la libertà di esprimere la propria identità queer.

In alcune storie che la riguardano, il sentiero nel bosco che porta alla sua capanna sembra delinearsi su un paio di labbra dischiuse. È facile da immaginare: le betulle stanno le une vicine alle altre come denti, sporchi e duri. Il bivio guizza veloce come la lingua di un serpente, pronto a mordere. Immaginatela e sappiate che non importa quale strada prendiate, una strega vi attende alla fine, in una casa appoggiata su zampe di gallina, circondata da una staccionata punteggiata di teschi umani. Tenete quella casa a mente. Incombe su di voi.
Nel marzo del 2014, ho letto per la prima volta Deathless (Non morti) il romanzo di Catherine M. Valente. Avevo diciassette anni e non avevo ancora fatto coming out, vivevo nel sud ed ero fedele solo ai romanzi fantasy e alle piante. Le donne, a me famigliari come il corpo che vedevo allo specchio, erano per me la rappresentazione fisica del terrore. A ogni cotta dovevo reinventare il mio mondo in cui le regole della venerazione non potevano essere insegnate. Al contrario, erano momenti di scoperte inquietanti, fatti di una fame così forte che non poteva essere compresa fino al momento dell’inevitabile schianto. Tenevo rinchiusa nel mio cuore la verità riguardo ciò che bramavo e mi sentivo in imbarazzo per la totalità di quel desiderio che mi sopraffaceva.
Deathless mi ha fatto conoscere Baba Yaga, la vecchia strega cannibale del folklore slavo, che con indovinelli e prove apparentemente impossibili, sfidava le protagoniste ingenue giunte alla sua capanna con le zampe di gallina. In alcuni racconti appare materna, in altri minacciosa, è un enigma costante, le sue azioni sono imprevedibili e determinate solo dalla natura mutevole del suo umore e dei suoi desideri. Nel romanzo di Valente, Baba Yaga è crudele nei confronti della protagonista Marya Morevna, ma allo stesso tempo la aiuta a comprendere le ragioni dietro le sue scelte; prima minaccia di divorarla e poco dopo le offre di abbandonare la ricerca del potere per una casa, una madre, un letto, un libro e un focolare acceso.

In quegli anni, ero a digiuno di contenuti queer. Quando ho divorato Deathless in un solo giorno e sono arrivata al punto in cui Baba Yaga si rivela queer mi sono sentita rappresentata: «Hai idea di quante cose sappia degli uomini? E delle donne! Non essere così scioccata, dopo un paio di eoni a fare la moglie, ne vuoi avere una anche tu». Per la prima volta ho sentito la voce di qualcuno come me. Ho letto e riletto quella frase, colma di un piacere privato e nauseante, a quel punto pensavo di essere bisessuale, un’idea che faticavo a mandar giù come una medicina cattiva finché non approdai al concetto dolce e duro di lesbismo, e ho pensato, ovvio. Era normale che questa donna terrificante desiderasse anche le donne. Dopotutto, il pensiero della queerness non era sempre sorto in me scuro e veloce come un’onda, con una violenza incontenibile che rifiutava di essere segregata negli angoli della mente?
Baba Yaga è diventata sempre più importante per me, un’espressione privata dei miei desideri e bisogni, un capro espiatorio attraverso il quale proiettare le mie paure. Non c’era una parola che mi desse sicurezza per esprimere ciò che ero. Era più semplice vedere lei, volerla, sentirla vicina a me come una madre che non si vergognava del mio essere ripugnante.
Solo dopo qualche anno ho scoperto che altre persone erano state attirate dalla strega e dal suo essere un personaggio folklorico la cui morale non era né bianca né nera, in particolare negli spazi online dedicati all’arte e alla scrittura. Questo gruppo demografico era prevalentemente queer e accoglieva la rappresentazione di una femminilità violenta e diversa. Come figura mitica, Baba Yaga era l’Altro. Non era la strega malvagia delle mie letture fantasy, ma nemmeno una dea saggia con la mano tesa in un gesto d’aiuto. Da lei ci si aspettava crudeltà, ma la sua bontà era un premio. Non aderendo ad alcuno standard, ha creato un nuovo codice morale dove il suo isolamento era una scelta fatta per proteggersi, e la sua bontà veniva concessa solo a chi se lo meritava.
L’ambiguità di Baba Yaga rende difficile incasellarla e comprenderla. Come si può categorizzare una donna imperscrutabile? Quando è giunta a me, mi sentivo al sicuro rinchiusa dentro il mio mondo. Ho scoperto che la sua decisione di isolarsi la spingeva oltre gli standard dei «mostri» tipici del folklore. Ora più che mai, molte lesbiche desiderano vivere isolate ai limiti del mondo, un desiderio che Baba Yaga mostra come sicuro e famigliare. Da adolescente ho passato anni a sognare di poter vivere in campagna con la mia migliore amica, dove nessuno si sarebbe aspettato nulla da noi, mentre il nostro rapporto sempre più intimo e involontariamente tossico si spingeva oltre i confini di una normale amicizia.

Negli anni precedenti al mio coming out, Baba Yaga mi aveva affascinato perché pensavo che rivelare la mia vera identità mi avrebbe fatto perdere tutto ciò a cui tenevo, anche quando sembrava l’unica scelta per restare sana di mente. Le mie relazioni si dissolvevano nella segretezza. Non potevo cercare il conforto di nessuno mentre il mio mondo implodeva. Mi sentivo anonima, invisibile, una ferita aperta. Ogni cotta, ogni bacio sembravano un’ascia che penzolava sopra la mia testa, la lama sempre più bassa finché il taglio sarebbe stato troppo profondo per poterlo rimarginare. Sia prima che dopo il coming out, il mio istinto era quello di affondare i piedi in un terreno morbido, cercando di rispondere alle mie domande internamente piuttosto che spiegarle in pubblico.
Ma nel mito Baba Yaga accoglie lo schianto. È affamata e bisognosa ma non cerca nessuno. Aspetta al limitare della foresta e nel momento in cui la ragazza si presenta alla sua porta in cerca di aiuto, fa una scelta. La decisione è ovvia: mangiare o assistere. Ma il metodo con cui la mette in atto è una lama più tagliente, una creatura completamente diversa. Nei racconti più antichi, rappresentava Madre Natura, una creatura stretta tra la morte e la rinascita, la norma deviata dell’ideologia pagana. Attraverso i secoli la sua storia fu distorta in un ammonimento per le giovani donne: lei era il futuro che le aspettava se avessero scelto il percorso sbagliato. In alcune storie, divorava la giovane; in altre, la inseguiva attraverso la campagna, creando nella sua scia fiumi e montagne, portando nuova vita nell’universo. In particolare, in una storia, donò alla giovane Vasilisa la Bella una luce che la guidasse e con la quale poter dar fuoco alla sua famiglia violenta e malvagia. Nell’aiuto che le diede c’era violenza e in quella violenza c’era un rispetto ambiguo.

Nel libro Nella casa dei tuoi sogni, Carmen Maria Machado spiega di come, nella cultura pop, l’antagonista queer spesso venga posto ai margini come fosse una raffigurazione scomunicata dell’orrore. Nel folklore, quando viene rappresentata come un’antagonista, Baba Yaga con la sua femminilità selvaggia simboleggia in modo innegabile le conseguenze a cui portano determinate scelte. Tuttavia, ho trovato che le sue azioni fossero giustificate, vista l’evidente correlazione tra la sua crudeltà e la sua fame, il suo odio e il suo desiderio. Riguardo alle antagoniste come Baba Yaga, Machado nel suo memoir scrive: «Vivono in un mondo che le odia. Si sono adattate; hanno imparato a nascondersi. Sono sopravvissute.»
La rappresentazione di Baba Yaga nei media nella sua forma canonica ha radici queer, antiche e intricate. Ma nelle storie tradizionali tutto ciò non viene celebrato. L’avvertimento rivolto alle donne facilmente influenzabili è chiaro: Baba Yaga ha ceduto al desiderio ed è costretta a rifugiarsi nell’oscurità del bosco disprezzata e oltraggiata. Nonostante ciò, non è appesantita dal mondo eteronormativo, cerca solo il piacere, il potere, solo la connessione elettrica tra sé e un’altra donna e si ritira per godere del suo desiderio. Ma essendo considerata diversa e malvagia, alla strega affamata viene negata la redenzione e l’umanità, e a mia volta anch’io me ne sono sentita separata.
Dopo aver fatto coming out, mi aspettavo di sentirmi libera, invece, mi sono sentita più persa di quando la mia sessualità apparteneva solo a me. Nella mia identità sdrucciolevole, cercavo un’apparenza di potere. La mancanza di attenzione di Baba Yaga verso la percezione pubblica e le ripercussioni morali erano per me un faro. Gran parte dei mei desideri mi facevano sentire mostruosa. Se non ero una donna con un ventre in attesa di un percorso già tracciato con cura, chi ero davvero? Il mio futuro mi stava così stretto che sarebbe potuto passare attraverso la cruna di un ago. Sembrava che ogni scelta diversa da quella predeterminata mi avrebbe resa disprezzata, sola e vulnerabile a chi mi circondava.

Ma Baba Yaga non è odiata. È antica, caotica, senza legami. Nello stabilire la propria imprevedibilità, guadagna potere, rafforzandosi come dea, una dea che non deve niente al mondo che l’ha oltraggiata. Mi sono rispecchiata nell’idea di poter esistere come qualcosa che andava oltre il tradizionale. Baba Yaga non mi chiedeva di essere buona, ma voleva da me solo la risposta che avevo costruito per me stessa. E il mio essere nel giusto era soggettivo e solo mio, non avevo più bisogno di aderire a una serie di regole predeterminate.
Attraverso l’arte, ho inserito ripetutamente il simbolismo legato a Baba Yaga nel mio lavoro. La sua casa antropomorfa appoggiata su zampe di gallina è diventata un personaggio a sé stante che dipingevo continuamente, uno spazio separato da quelli più conformi alla tradizione. Un teschio su un bastone ha preso il posto di una lampada. Acque scure, alberi di betulla dai tronchi sottili e versanti montani sinuosi come il corpo di una donna stesa su un fianco erano scenografie dove abitualmente inserivo la silhouette di una ragazza.
Le forme scure dei miei personaggi sfrecciavano attraverso la landa mitologica di Baba Yaga. Quell’ombra agiva in modi di cui io non mi sentivo capace. Poteva camminare per chilometri tra i boschi. Poteva scoccare frecce agli uccelli in cielo. Poteva affondare nelle acque scure, conosciute solo dalle canne e dai serpenti. Faceva delle scelte, scelte senza conseguenze, non c’era il bene o il male, solo una possibilità o un’altra senza alcuna ripercussione ad attenderla.
A volte, queste creazioni mi sembravano l’unica espressione della mia identità queer, nonostante fossi stata abbastanza fortunata da essere accettata dalle persone attorno a me. Non credevo di poter essere onesta con la mia famiglia, temevo che mi avrebbero visto come una cosa perversa e sbagliata. Sebbene avessi amicə queer che mi sostenevano, non comprendevo me stessa abbastanza da sentirmi capita da loro. C’era una barriera tra il mio linguaggio interno e quello esterno, non importava quanto sforzo facessi per esprimere i miei sentimenti, le parole non bastavano, non esprimevano la verità. Attraverso i dipinti potevo incollare insieme i pezzi della mia storia. Potevo creare un codice di simboli che rappresentavano il linguaggio metaforico del mio folklore personale, con Baba Yaga a guidarmi attraverso il percorso e obbligandomi a fare scelte che pensavo potessero allontanarmi dalla verità del mio stesso corpo.
Era facile guardare Baba Yaga, sognarla, protagonista e antagonista insieme, la sua lingua era tagliente, i suoi desideri venivano soddisfatti a ogni occasione. In un genere dove il fulcro centrale del raccontare una storia è la presenza di una morale, lei negava ogni logica e prosperava come guida paradossale. Era per me un esempio, se anche avessi detto la verità e nel farlo mi fossi annichilita, perlomeno avrei sempre avuto il potere di scegliere.
Nelle pagine finali di Deathless, Baba Yaga afferma che le piace aiutare una donna soprattutto «quando la sua perversione mi ha reso orgogliosa». Ho passato molto tempo della mia vita a sentirmi perversa: i miei desideri, le mie paure, i miei bisogni sembravano pensieri estranei, fatti per un’altra mente che era rimasta intrappolata nella mia. Ma quell’affermazione da sola sembrava darmi il permesso di essere selvaggia, di deviare dalla norma. Aveva acceso la miccia che mi ha permesso di uscire da una vita per entrare in un’altra. Potevo essere chi sono sempre stata, o potevo accoccare la freccia in un arco in attesa e prepararmi a vederla volare.

Prima di lasciare che la ormai più grande e più dura Marya Morevna scegliesse il suo destino, Baba Yaga le chiede: «Come ti sembra, la donna che avresti potuto essere?».
Perdonando il mio desiderio, ho lasciato che la donna che avrei potuto essere mi superasse. Il suo mondo sarà suo soltanto. Ho liberato la parte di me che era ancora incatenata, che sembrava terrificante e mi sono innamorata del mio essere lesbica. Era una cosa bellissima ora che finalmente la consideravo, e affilata abbastanza da far male quando la guardavo direttamente. Ho diretto il mio sguardo verso di lei e non l’ho distolto.
Sembrava ragionevole prendere l’odio del mondo e trasformarlo in una megera, tirare fuori la propria oscurità finché non sembra carbone duro e pesante in gola. Ma è affilare quell’oscurità la vera sfida. Desiderare è la vera sfida. Guardare quello che vuoi camminare attraverso la porta e afferrarlo è la prova più dura, il coraggio che ci vuole, il fattore decisivo che dichiara la tua alterità e diventa una scelta. Il percorso si divide nei boschi. Non è delineato, ogni strada fangosa sembra brillare di promesse, essere piena di pericoli. Il potere sta nel camminare, un passo dopo l’altro, esposta nell’oscurità desiderando solo di essere vista. Attraverso Baba Yaga, vediamo la bellezza di un’identità sfacciata. Lei desidera, lei mangia e diventa più antica della morte.
L’ho vista e anche io ho desiderato. Ho lasciato la mia fame insoddisfatta per troppo tempo
L’articolo è stato pubblicato su Electric Literature e scritto da Mallory Pearson, una scrittrice e artista newyorkese. Potete trovare la versione originale qui.