Artemisia gentileschi e la vendetta femminile
La pittrice, sopravvissuta a uno stupro, inserisce nei suoi quadri la rabbia delle donne e auspica la solidarietà femminile.
TW: Si parla di stupro
Dal 1985, anno di nascita del movimento Guerrilla girls, il numero di artiste esposte al Metropolitan Museum of Art (MET) è salito da 0 a 7. Ho sempre creduto che fosse la comunità a creare un artista, ma per ricordarlo, se meritevole, sono necessari i musei.
L’esempio più famoso è Vincent Van Gogh: in vita, non riuscì a vendere una sola tela, mentre adesso i millenial non vedono l’ora di comprare le felpe con una riproduzione da quattro soldi della sua notte stellata. Oddio, ucciderei per una di quelle! Van Gogh era un pittore post-impressionista, descrivendolo in Questione di sguardi John Berger ha affermato: «Qualsiasi pubblicità pone le sue fondamenta sull’ansia.»
Lə artistə che rimangono nella memoria hanno storie ricche di dolore. Un dolore a cui Vincent era abituato, sia nella vita sia nell’arte. Ogni secolo ha il suo artista. Ma sfortunatamente sono gli uomini a raccontare la storia. Dal 2017 con il #metoo si è inclinato qualcosa nel sistema. Si è creata una crepa piccola, ma sufficientemente grande perché da essa potesse passare un’artista italiana sopravvissuta a uno stupro, che si autodefiniva come «lo spirito di Cesare nell’anima di una donna», Artemisia Gentileschi.
Artemisia Gentileschi era una pittrice rinascimentale, contemporanea di Michelangelo, Galileo e Leonardo Da Vinci. Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore affermato e aveva notato che Artemisia, tra tutti i suoi figli, era l’erede del suo talento artistico.
Tutte le testimonianze del tempo sostengono che, pur essendo un padre severo, Orazio credesse nel talento della figlia. A diciassette anni, Artemisia fu violentata da un amico del padre, Agostino Tassi, anch’egli artista noto e amico intimo del Papa. Lo portò dunque a giudizio, ciò al tempo significava che l’onere della prova spettava a lei.
Il processo durò sette mesi e Artemisia fu sottoposta a ogni tipo di esame (ancora oggi le nostre onorevoli corti fanno subire di tutto alle donne che denunciano uno stupro, figuriamoci quattrocento anni fa). Le lenzuola furono controllate per accertarsi che avesse perso la verginità a seguito di uno stupro. Inoltre, per stabilire l’attendibilità della sua testimonianza, le autorità hanno impiegato una primitiva macchina della verità, che era una vera e propria forma di tortura: lo schiaccia pollici, uno strumento molto comune al tempo.
Quello che mi ha più colpita della testimonianza è che, durante lo stupro, Tuzia, amica di famiglia, si trovasse nella stanza accanto e, pur sentendo le grida di aiuto di Artemisia, fosse troppo intimorita dalla levatura sociale dell’uomo. Nella testimonianza, venne inoltre riportato che, durante il suo calvario, Artemisia abbia preso un coltello per tentare di uccidere il carnefice, invano.
L’uomo è stato dichiarato colpevole, ma non bisogna mai sottovalutare l’alleanza tra religione e coloro che commettono una violenza sessuale. Infatti, Agostino Tassi non scontò mai la pena che gli fu inflitta, perché amico del Papa.
È così che ha inizio la storia di Artemisia. Segnalo ai lettori che con questo non voglio dire che il suo dolore ha dato vita al suo genio. Continuo a sostenere che fosse un’artista di talento che sarebbe riuscita a eccellere in ogni caso. In effetti, Susanna e i vecchioni, la sua prima opera, risale ai suoi diciassette anni, non può, quindi, essere definita come una scena influenzata dalla vendetta per una violenza subita.
Artemisia creò altri cinquantasette dipinti, di cui quarantanove con protagoniste femminili. È stata la prima donna a essere ammessa alla prestigiosa Accademia Delle Arti e Del Disegno. Il suo lavoro è stato ampiamente influenzato da Caravaggio e dal suo realismo drammatico, il che ci conduce direttamente al dipinto Giuditta e Oloferne.
Secondo l’episodio biblico, una bellissima vedova, Giuditta, attirò nella sua tenda con l’inganno un generale tiranno e lo decapitò, con l’aiuto di una domestica, portando così il suo popolo alla vittoria.
Lo stesso tema fu precedentemente ritratto da Caravaggio, mentre nella scultura lo ritroviamo in un’opera di Donatello. Ma nessuno ha catturato l’essenza del soggetto come Artemisia. Questo dipinto soddisfa sia il ruolo di testamento per la coscienza artistica della pittrice sia il ruolo di promemoria della potenza della solidarietà femminile.
La prima versione del dipinto è stata completata tra il 1612 e 1613, all’incirca nello stesso periodo del suo stupro e, come si può notare dall’intensità dell’opera, Artemisia vi ha trasferito molto del suo dolore. Vi ha inoltre aggiunto un elemento in più: sul bracciale di Giuditta si trova un ritratto di Artemide, dea che ha protetto la propria verginità da coloro che hanno cercato di disonorarla e violentarla, facendo incontrare loro una fine violenta.
Artemisia era l’unica donna all’epoca a dipingere scene bibliche, un tema di cui gli uomini possedevano il monopolio. Trattando questa materia, ha deciso di concentrarsi sul potere femminile. Le sue protagoniste erano donne furiose, che non venivano considerate troppo insicure o fragili per dimostrarsi arrabbiate.
Probabilmente Artemisia è stata la prima che, grazie alla sua arte, ha permesso alle donne di ostentare la propria rabbia con orgoglio. Confrontiamo adesso la Giuditta di Artemisia con l’interpretazione antecedente di Caravaggio.
Qui, Giuditta è più giovane, appare ingenua e insicura. Ancora più importante, sembra essere guidata dall’anziana domestica, ancora una volta a sottolineare che la bellezza e la giovinezza da sole non sono capaci di compiere un atto osceno senza l’assistenza corrotta della vecchiaia.
Al contrario, Artemisia ha messo entrambe le protagoniste sullo stesso livello di fronte al delitto. È stata anche la prima artista e la prima donna a mostrare con accuratezza medica una scena del crimine. Il modo in cui viene rappresentato il sangue che zampilla deriva dalla diretta influenza di un suo amico fiorentino, l’uomo che ha teorizzato la traiettoria parabolica, Galileo Galilei.
Se ci concentriamo con attenzione sul dipinto di Artemisia Gentileschi, possiamo notare come la pittrice, ispirata dal dramma artistico caravaggesco, lo abbia sviluppato ulteriormente. Sebbene il rosso governi entrambi i dipinti, i colori in quello della pittrice sono più intensi. Artemisia vuole essere sicura che il sangue domini la sua opera, creando così un’esperienza per lo spettatore, discostandosi dalle regole dell’estetica e decidendo di ritrarre solamente la verità della scena. L’osservatore diventa testimone del crimine, o meglio, della vittoria di Giuditta.
Contrariamente a quanto si crede, non ritengo che la Giuditta gentileschiana rappresenti la fantasia di una vendetta in seguito a una violenza. Non si tratta nemmeno di un tentativo di assecondare la giustizia retributiva. Rappresenta, invece, ciò che Artemisia spera per noi.
Artemisia non è stata aiutata dalla sua ancella, mentre veniva violentata nella stanza accanto; Artemisia ha attaccato il suo assalitore con un coltello e ha fallito. Per riuscire a sconfiggere il patriarcato, si deve lottare insieme.
Perciò, la sua Giuditta non è senza paura perché sa di poter vincere, bensì impassibile perché sa cosa serve per distruggere il patriarcato e coloro a esso fedeli. Non a caso la spada si trova al centro del dipinto. Non a caso le mani di entrambe le protagoniste non solo sono potenti, ma anche determinate.
La sua Giuditta serve a ricordare la forza di tutte le sopravvissute e la serva è una richiesta nei confronti degli ignavi passivi. Nonostante il suo talento, Artemisia è stata dimenticata per quattrocento anni. Ma, durante gli anni Settanta, qualcosa è cambiato: una generazione di donne ne aveva abbastanza della sottorappresentazione delle artiste.
Artemisia tornò in vita, ma i movimenti restano sempre tali, fugaci per natura e in costante competizione con il tempo. Dopo il 2017, un nuovo movimento si è fatto strada, un movimento che cerca disperatamente di riorganizzare e ricostruire il discorso attorno allo stupro. Ancora una volta una generazione di donne ha fatto sentire la propria voce, affermando il proprio diritto a essere arrabbiata e indignata nei confronti della tirannia degli Oloferne dei giorni nostri, nella speranza che sia arrivato il momento di mostrare la forza e la solidarietà che Artemisia ci aveva predetto.
Sono onorata di far parte di questa generazione che ancora una volta ha trovato il modo di far brillare il lavoro di Artemisia, utile non solo per il movimento ma anche per l’idea culturale della donna. Il suo lavoro è una lettera d’amore verso ogni donna e cita: «Siamo proprio libere dallo sguardo maschile come lo eravamo quattrocento anni fa, perciò stiamo attente, rabbia, rabbia, rabbia e cerchiamo le Giuditte che ancora possono avere bisogno di noi.»
Questo articolo, tratto da Feminism in India e tradotto da Silvia Bonavero, è stato scritto da Smriti Bhoker, poetessa e scrittrice Urdi, che si interessa di sociologia, femminismo e apprendimento delle lingue. Potete trovare l’articolo originale qui.